Il Mortorio

“Per eseguire la pia mente del Santo cardinale Arcivescovo [San Carlo]; per mettere sotto gli occhi del pubblico l'efficacissimo, per mai peccare, novissimo della morte; e per dare maggior comodità al popolo di suffragare alle anime de poveri defonti"; per questi motivi il canonico Benedetto Landriani promosse la costruzione (tra il 1689 ed il 1692) della "Cuppoletta de Morti; o pur 'Mortorio' come si ciama dal volgo"; ciò in contrasto con la curia arcivescovile, che riteneva ingiustificata la spesa, dovendosi ancora ultimare la facciata. Il capomastro è Francesco Rusca, gli scalpellini i Giudici di Saltrio, il ramiere Carlo Francesco Rava, il fabbro Pomponio Comini. Non conosciamo invece il nome dell'architetto, che progettò una struttura originalissima, che non ha paragone in altri 'mortori' dell'epoca, un edificio autonomo, a sé stante, anche se perfettamente integrato nel complesso della basilica, con pianta rettangolare all'esterno ed ottagonale allungata all'interno ed un ricco apparato di modanature architettoniche, che interpretano piuttosto liberamente gli ordini tradizionali e si concludono nell'estrosa cupoletta a doppia curvatura. All'interno, la successione dal cupo semininterrato (dove venivano depositate le ossa) al vano dell'altare, alla luminosa gloria dei santi raffigurata nella cupola è una chiara metafora della grazia divina che salva. Restauri alla parte muraria sono stati effettuati nel 1901, nel 1923 (quando fu realizzata la recinzione, che tolse immediatezza alla percezione dell'edificio) e nel 1993. La funzione educativa del 'mortorio' era soprattutto affidata agli affreschi, eseguiti nel 1692, che rivestivano completamente, oltre all'interno, le pareti rivolte verso la strada, che potevano essere viste dai passanti. I pittori sono Francesco, Biagio e Ambrogio Bellotti-Gelli, capostipiti di una famiglia di pittori: Leopoldo, Paolo, il canonico Biagio, Serafino, Matteo, Michelangelo, Arcangelo. Con modi che si rifanno talvolta al Cerano o a Daniele Crespi, sono rappresentati all'interno, dal basso verso l'alto, i tre momenti della salvezza: Angeli con simboli della passione redentrice di Cristo, scene del Purgatorio con angeli che liberano le anime dal peccato, la glorificazione di Angeli e santi in cielo; all'esterno, con linguaggio più popolare e didascalico, era raffigurata una originale meditazione sulla vita, sulla caducità dei valori terreni e sulla morte: le Quattro stagioni dell'uomo. Donne ghermite dalla morte nel fiore degli anni,  immagmi della Morte con la falce, Cariatidi morte, le Virtù, il Purgatorio, Angeli  piangenti.

L'insegnamento era rafforzato da scritte su panneggi e cartigli; le più curiose (purtroppo in gran parte perdute): "Omnes morimur" (tutti moriamo); "Ecco mortai tua sorte, specchio della tua vita, ecco la morte"; "Di tutti sovrana"; "Traesti da busti esusti il nome o Busto; busto sei tu qual ne ritorni al busto"; una possibile interpretazione è: hai derivato il tuo nome dai cadaveri bruciati, o Busto (riferimento ad una leggenda sull'origine del borgo), sei un cadavere quando ritorni al cimitero.

Nel 1975, per presunti motivi di conservazione, gli affreschi esterni furono staccati, smembrati, riportati su tela e collocati nella chiesa di San Gregorio; si persero così la continuità del ciclo, il senso del messaggio e quella straordinaria integrazione con l'architettura che facevano del 'mortorio' un documento unico delle tecniche di comunicazione del '600.