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“La Depressione nella Storia” (II°Parte)

 “Ogni creatura ama le sue catene. Questo è il primo paradosso e il nodo inestricabile della nostra natura”

(Shri Aurobindo).

 

Da quando Freud cominciò a considerare i ricordi dei suoi pazienti come fantasie infantili piuttosto che come ricordi veri, la psicoanalisi tradizionale diede inizio agli studi sull’aspetto intrapsichico del comportamento umano tralasciando le influenze culturali e interpersonali.

Come reazione alla metapsicologia intrapsichica, biologica e meccanicistica, alcuni “punti di vista” si distinsero in varie scuole, chiamate genericamente le scuole di pensiero psicoanalitiche interpersonali, culturali ed esistenzialiste.

I primi lavori che si occuparono dei fattori non intrapsichici nello studio della depressione furono le due pubblicazioni su pazienti maniaco-depressivi della Cohen e dei suoi collaboratori della scuola di psichiatria di Washington. Tali studi considerano l’atmosfera familiare in cui cresce il depresso, l’effetto del paziente sugli altri e la personalità depressiva nel suo complesso. Il lavoro della Cohen (1954) porta i risultati di un’approfondita indagine psicoanalitica su dodici casi di psicosi maniaco-depressiva.

Una scoperta costante per tutti e dodici fu che, durante l’infanzia del paziente la famiglia si fosse sentita emarginata a causa di qualche fattore che l’avrebbe resa “diversa”; come l’appartenenza ad una minoranza, gravi rovesci finanziari o una malattia mentale in famiglia. Il figlio “destinato” a diventare maniaco-depressivo veniva scelto come l’alfiere della famiglia per migliorare lo stato sociale e farsi accettare dalla comunità.

In vista di questo fine quindi si chiedeva ai bambini di uniformarsi ad un elevato standard di comportamento ed avere successo allo scopo di riscattare il “livello” della famiglia.

La Cohen a questo proposito concluse che il “servirsi” in questo modo del bambino lo svaluta come persona in quanto tale, perchè i suoi buoni risultati vengono considerati come un “servizio” ben preciso piuttosto che rivolti a dare al bambino un senso di successo e di orgoglio.

Si trovò che la madre rappresentava la figura più forte, che pretendeva obbedienza; mentre il padre era spesso fallito economicamente e socialmente. L’esempio del padre, continuamente sottomesso e svalutato dalla madre costituiva un “falso modello” per il bambino che cercava disperatamente di raggiungere le mete elevate indicate dalla madre, per non diventare come il padre.

Il fatto che, durante l’infanzia, questi bambini avessero goduto di una posizione speciale, unicamente per la capacità di ottenere dei risultati, li aveva portati a considerare i rapporti umani come mezzi per raggiungere le mete desiderate. Allo stesso tempo il bambino subiva la grande invidia degli altri e aveva timore della competitività, manifestata con una svalutazione di se’ per ottenere un appoggio indispensabile dagli altri.

Tali esperienze avrebbero contribuito alla costruzione di una precisa struttura costante della personalità adulta: il maniaco-depressivo non riusciva a vedere un’altra persona indipendentemente dai propri bisogni; allo stesso tempo vi era un timore dell’abbandono. Il fattore più costante, secondo il gruppo di Washington, era il senso di vuoto interiore e un bisogno continuo di appoggio che le persone esterne avrebbero dovuto compensare.

Questo costituiva forse l’episodio depressivo vero e proprio, ovvero il tentativo di riconquistare l’altro necessario; se questa speranza andava perduta la depressione progrediva fino ad uno stadio psicotico.

Per quanto riguarda la terapia dei soggetti maniaci depressivi bisogna considerare alcuni ostacoli: l’eccessiva dipendenza nei confronti del terapista e la “risposta stereotipata”, quindi l’incapacità del paziente di vedere il terapista oggettivamente ma, al contrario, come una ripetizione di una figura parentale. Un altro problema è in relazione alla comunicazione perchè il maniaco-depressivo mostra una mancanza di empatia che lo porta ad erigere delle barriere nei confronti di un reale scambio con gli altri. In generale poi questi soggetti considerano la terapia soltanto per ottenere rassicurazione evitando di esaminare a fondo i loro problemi.

Gibson (1958) ripropose lo studio del gruppo di Washington usando un questionario con gli stessi pazienti e in seguito confrontando il gruppo dei maniaco-depressivi con un gruppo di pazienti schizofrenici, i primi differivano dai secondi per queste caratteristiche: il maniaco-depressivo proviene da una famiglia nella quale vi è un accentuata ricerca di prestigio da parte dei genitori; nel passato del paziente vi è una profonda invidia e competitività, i genitori di questi pazienti si preoccupano fortemente dell’approvazione sociale.

La prima analisi della depressione, secondo il punto di vista culturalista, venne compiuta da Alfred Adler gia nel 1914.

 

Alfred ADLER (1870-1937)

 

Nel suo lavoro “Melancholie”, Adler afferma che questi soggetti tendono verso mete elevate irraggiungibili e poi incolpano gli altri o le circostanze della vita per il mancato raggiungimento di tali traguardi. In tal modo il depresso mostra rabbia esagerando i suoi pericoli e disprezza gli altri svalutando il mondo intero; questo compenserebbe la mancanza di un successo desiderato anche se irragionevole.

Adler colloca la depressione nella teoria generale del comportamento umano, ovvero nel suo sistema di psicologia individuale. Quindi per la scuola adleriana la psicopatologia deriverebbe da un’ aspirazione alla superiorità che si sviluppa per compensare dei sentimenti di inferiorità. Dato che tali “ideali” sono difficilmente realizzabili il soggetto sviluppa un sistema di scuse per adattarsi ai suoi fallimenti; alibi ed evasioni costituiscono manovre difensive. Nella depressione il soggetto ha imparato a sfruttare le sue debolezze lamentandosi di continuo con gli altri, evitando così le responsabilità della vita.

Autocommiserandosi il depresso obbliga gli altri a soddisfare i suoi desideri costringendoli a sacrificarsi per lui; è disposto a qualsiasi cosa pur di non dimostrare agli altri quanto lui sia malato e incapace, per sfuggire agli obblighi sociali e all’amicizia reciproca.

Secondo Adler  il depresso non si preoccuperebbe degli altri unicamente nei suoi periodi di benessere, quando prevale la sua sfrenata ambizione; se fallisce però incolpa regolarmente gli altri, la sua educazione, la sua sfortuna, o persino la sua stessa depressione.

All’interno della posizione culturalista sulla depressione è opportuno ricordare un esponente della letteratura psichiatrica: Bonime. Egli sostiene che la depressione non è solo un gruppo di sintomi che vanno a costituire una malattia periodica ma un modo quotidiano di interagire.

I principali elementi patologici di questo particolare modo di vita sono la manipolatività, la riluttanza a lasciarsi influenzare dagli altri, la ritrosia a dare gratificazioni, un fondamentale senso di ostilità e l’esperienza dell’ansia. In particolare, la manipolatività, ovvero la dipendenza del depresso interpretata come manovra per sfruttare la generosità e la responsabilità degli altri, lo porta a pretendere sempre risposte dagli altri senza però dare nulla in cambio.

In questo modo il depresso si priva di un vero affetto o di una vera soddisfazione.

Allo stesso tempo però interpreta in modo errato i tentativi degli altri di aiutarlo, considerandoli come metodi volti al fine di controllarlo. Anche Bonine ricollega la depressione adulta ad un’ infanzia non del tutto realizzata perchè mancante di nutrimento e di rispetto, all’insegna dell’inganno e della trascuratezza da parte dei genitori.

Ora, prima di passare alla teoria cognitiva di Beck, descriverò brevemente l’indirizzo della scuola esistenzialista, che ebbe una diffusione solo limitata negli Stati-Uniti.

Gli esistenzialisti in psicopatologia si propongono di descrivere il mondo fenomenologico del paziente senza ricorrere a concetti non esperienziali, come le dinamiche inconsce o ad eventi causali come l’ereditarietà o i traumi infantili.

Quindi l’analisi esistenziale o fenomenologica è l’esame del mondo così come è captato in modo intuitivo da una coscienza attiva, senza alcuna struttura preconcetta.

Le teorie esistenziali della depressione sono state ricapitolate da Arieti, il quale sottolinea una differenza tra il paziente maniaco-depressivo e lo schizofrenico. Mentre quest’ultimo può amare e odiare nello stesso tempo, il maniaco-depressivo esterna l’amore e l’odio.

Secondo Arieti, Henry Ey riteneva che lo stato depressivo fosse un arresto o un’insufficienza di tutte le attività vitali. Ey considerava la depressione “un’ immobilità patetica, una sospensione dell’esistenza, una sincope del tempo”.

Per conseguenza il paziente prova un senso d’incompletezza, d’impotenza e d’irrealtà.

Molti autori esistenziali si interessarono alla questione dell’atteggiamento del depresso nei confronti del tempo, rilevando che per il paziente depresso il tempo sembra essersi rallentato; nella sua esperienza soggettiva conta solo il passato.

I ricordi penosi dominano i suoi pensieri e gli rammentano la propria indegnità e la propria capacità di realizzazione.

Beck riassunse un vasto studio di Tellenbach sull’analisi della teoria clinica di 140 melanconici, descritti nel suo volume Melancolia (1961).

Tellenbach afferma che la vita e il lavoro del melanconico sono dominati da un ordine rigoroso: metodo nell’affrontare le cose, scrupolosità nel lavoro e un diffuso bisogno di comportarsi rettamente con le persone che gli sono vicine.

Nello stesso tempo è estremamente sensibile alla colpa. Il melanconico dedica la sua vita alla realizzazione del suo senso dell’ordine e ad evitare situazioni di colpa.

Preferisce la sicurezza di un impiego stabile al rischio che comporta un lavoro indipendente e autonomo. In sostanza gli esempi ci permettono di avere un quadro più dettagliato e più accurato del mondo soggettivo dell’individuo.

In un certo senso questi studi completarono quelli di indirizzo psicoanalitico, a prescindere dalle loro premesse filosofiche sono meritevoli di lettura per le loro descrizioni vivaci e penetranti di come il disturbo agisca sulla vita cosciente del paziente.

L’orientamento proposto da Arieti, i cui scritti apparvero nel 1959 e nel 1962 si differenzia da quello di Beck in quanto non sottolinea il fatto che il paziente è depresso perchè ha pensieri depressivi, ma mette in evidenza una storia cognitiva la cui esistenza è in parte notevole inconscia.

 

Aaron Beck (1921)

 

Dal 1963 Aaron Beck accentuò l’orientamento cognitivo nei confronti della depressione ma l’originalità della sua teoria sta nel fatto che egli considera le distorsioni cognitive, quali un pessimismo esagerato o degli autorimproveri non realistici, come la causa primaria della malattia, piuttosto che come elaborazioni secondarie.

Secondo Beck tutte le forme di psicopatologia manifestano in certa misura dei disturbi del pensiero. Nessuno può conoscere la realtà in modo del tutto obbiettivo e quindi la valutazione che ciascuno compie del suo mondo viene influenzata dalle sue esigenze passate; pertanto l’esame di realtà deve restare un fatto soggettivo.

Tuttavia vi è di solito un accordo consensuale sulla maggior parte delle esperienze, condivise dalla maggioranza, e per questo considerate appartenenti all’ambito della normalità. Invece in psicopatologia, per Beck, appaiono delle distorsioni caratteristiche che si discostano da ciò che la maggior parte degli individui considererebbe un modo realistico di interpretare la realtà.

I disturbi della depressione possono essere considerati in chiave di attivazione di tre modelli cognitivi principali, che costringono l’individuo a vedere se stesso, il proprio mondo e il proprio futuro in maniera negativa.

La cosiddetta “triade cognitiva”, presentata da Beck nel 1970, rappresenta tipi di distorsione presentati dalla depressione.

La prima componente della triade è il modello d’interpretazione negativa delle esperienze. Il paziente interpreta costantemente le proprie interazioni con l’ambiente come manifestazioni di sconfitta, privazione o denigrazione; vede la sua vita costellata da un susseguirsi di fardelli, ostacoli o situazioni traumatiche che lo sminuiscono in maniera notevole.

La seconda componente è il modello di visione negativa di se’. Egli si considera inadeguato o indegno e tende ad attribuire le esperienze spiacevoli ad un proprio difetto fisico, mentale o morale; svalutandosi a causa di questo presunto difetto tende a respingere se stesso.

La terza componente consiste nel vedere negativamente il futuro. Egli prevede che le sue difficoltà o sofferenze attuali continueranno all’infinito. Nel guardare il futuro, egli vede una vita d’incessanti avversità, frustrazioni e privazioni.

L’interpretazione  erronea dell’esperienza come privazione porta alla tristezza, proprio

come se si trattasse di una privazione reale. Le aspettative negative non realistiche portano alla disperazione, proprio come le aspettative fondate sulla realtà.

Le visioni negative del mondo, di se’ e del futuro tolgono al paziente i desideri positivi, stimolano desideri di elusione dei fatti spiacevoli apparenti, intensificano i desideri di dipendenza e suscitano la voglia di trovare una via d’uscita mediante il suicidio.

Alcuni dei sintomi fisici del paziente depresso si possono attribuire alle strutture che egli “impone” alle sue esperienze.

Il rallentamento può essere considerato il risultato della sua rassegnazione passiva, del suo senso di futilità e della perdita di motivazione spontanea. L’agitazione sembra collegata al desiderio frenetico del paziente di combattere per uscire da una situazione che egli considera disperata.

Quindi per Beck, da questo atteggiamento cognitivo sorgerebbero spontaneamente i sentimenti propri della depressione.

Beck produsse un’enorme quantità di lavoro clinico e sperimentale a sostegno della sua teoria. Benchè essa abbia molti meriti, la sua formulazione presenta anche alcuni difetti. Egli rivolse l’attenzione verso formulazioni cognitive prevalentemente coscienti e semplici, trascurando l’importante funzione delle strutture cognitive inconsce, come quella del conflitto e non rendendo così giustizia alla complessità della psiche umana.  La teoria di Beck risulta inoltre carente nel determinare perchè certe persone diventano depresse dopo una perdita ed altre no.  Egli si limita a riferire che una perdita provoca una reazione a catena che si autorinforza e che culmina nella depressione, definendo la persona depressa come qualcuno che “si considera privo di qualche elemento o attributo che egli ritiene essenziale per la sua felicità”.

In realtà Beck descrive i risultati ma non la causa della depressione, non va oltre le distorsioni cognitive coscienti, non considerando gli schemi sottostanti, spesso inconsci, conflittuali o interpersonali, che rendono in partenza l’individuo vulnerabile alla depressione. Nonostante queste limitazioni il suo lavoro è esemplare in quanto apre la strada verso il settore della cognizione in psicopatologia.

 

Martin SELIGMAN (1942)

 

Un altro modello, suggerito da Seligman per spiegare il “fenomeno depressivo” è quello detto dell’ “impotenza appresa”.

Seligman ed i suoi colleghi compirono esperimenti in cui somministravano uno shock inevitabile a dei cani e trovarono che, dopo aver sottoposto i cani ad una serie di stimoli dolorosi, gli animali non evitavano gli stimoli dolorosi anche quando era possibile sfuggirvi. Sembrava che i cani rinunciassero alla possibilità che era loro data di evitare lo shock.

Seligman estese questi risultati sperimentati alla depressione umana, ipotizzando un atteggiamento d’impotenza dovuto all’impossibilità del depresso di impadronirsi di tecniche adattive per affrontare le situazioni dolorose.

Alla base di questa teoria vi è l’ipotesi che il depresso è incapace di controllare le ricompense dell’ambiente e si percepisce come incapace di modificare questo stato di cose non gratificante; credendo che il suo comportamento sia privo di significato.

Seligman, contrariamente a Beck, afferma che “la depressione non è un pessimismo generalizzato, bensì un pessimismo specifico, relativo alle proprie azioni specializzate”.   

 

Fonti bibliografiche

-Arieti, S. & Bemporad, J. (1978). “La depressione grave e lieve”, Milano: Feltrinelli, 1987.

-Beck, A. (1987). “ La Depressione”, Torino: Boringhieri.

-Beck, AT, Rush AH, Shaw BF & Emery G. (1979). “Cognitive therapy of depression”. New York:    Guilford Press.