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“La Depressione nella Storia”: Studio Psicoanalitico (I°Parte)

 

“La psicoanalisi è nata come psicoterapia, ma non è questa la ragione per cui ho inteso raccomandarla al vostro interesse, bensì per il suo contenuto di verità”  (Sigmund Freud).

  

La prima descrizione clinica della depressione risale ad Ippocrate (IV sec. a.C.), il quale coniò il termine “melanconia”, pensando che fosse causata da un eccesso di bile nera nel cervello del soggetto depresso. Egli catalogò la melanconia come uno dei quattro maggiori tipi di malattia psichiatrica; quindi insieme alla mania, alla frenite e alla paranoia.

 

IPPOCRATE (460 a.C. - 377 a.C.)

 

Nel II secolo d.C. Areteo di Cappadocia diede la descrizione più completa e moderna della depressione, avanzando l’ipotesi che tale

disturbo fosse causato da fattori puramente psicologici  e notò l’importanza del rapporto interpersonale nel corso della malattia, riportando il caso di un paziente gravemente malato che guarì quando si innamorò. Questo promettente lavoro iniziato da Areteo non venne continuato dai suoi successori e la teoria sviluppata da Galeno nel secondo secolo rimase dottrina per tutto il Medioevo.

Solo nel Rinascimento riapparve questo interesse per la depressione, in particolare nell’Inghilterra elisabettiana, dove, in quel breve periodo di storia vennero dedicati a questo disturbo un consistente numero di lavori, quali: “Treatise ou Melancholia” di Timothi Bright (1586); “Optick Glass of Humours” di  Thomas Walkington e “Anatomy of Melancholy” di Robert Burton nel 1621.

Poi, con il diffondersi della rivoluzione scientifica, i ricercatori psichiatrici cominciarono a considerare i fattori fisiologici come causa della malattia mentale; tuttavia vi era poco ordine nelle loro scoperte, finchè Kraepelin portò il suo contributo introducendo un primo sistema nosologico.

Kraepelin consolidò le molteplici sindromi individuate in tre categorie principali: demenza precoce, parafrenia e psicosi maniaco-depressiva; ed in quest’ ultima vasta categoria inserì numerosi disturbi depressivi. Nel suo tentativo di costruire un valido sistema di classificazione, Kraepelin seguì il modello medico; egli vedeva i disturbi psichiatrici originati da una causa organica certa, anche se fino ad allora non identificata.

Benché il sistema di Kraepelin fosse ampiamente adottato e accolto come un passo avanti decisivo, esso raccolse anche alcune critiche: si contestò che, dato il grande numero di influenze agenti su ogni individuo, non si poteva mantenere con certezza una prognosi troppo deterministica.

 

 

 Emil KRAEPELIN (1856-1926)

 

Uno dei più attivi critici di Kraepelin fu Adolf Meyer, il quale cominciò a considerare i disturbi psichiatrici come influenzati dagli avvenimenti della vita piuttosto che da condizioni strettamente organiche che procedono indipendentemente da fattori ambientali.

Nel 1904 Meyer si oppose al termine melanconia suggerendo che il disturbo fosse chiamato depressione. Meyer fu indubbiamente influenzato dalle nuove scoperte della psicoanalisi che pretendevano di penetrare oltre le manifestazioni superficiali della malattia fino al nucleo nascosto della patologia, che poteva allora essere compreso in termini psicologici.

 

Adolf MEYER (1866-1950)

 

La psicoanalisi insisteva sul fatto che la malattia mentale non era semplicemente la manifestazione esteriore di una patologia cerebrale, ma che i suoi sintomi erano di origine psicologica e avevano un significato.

Se Kraepelin si era basato essenzialmente sulla “struttura formale” delle manifestazioni della malattia dei suoi pazienti, Freud invece considerava significativo ciò che il paziente diceva e faceva, in quanto ciò avrebbe rilevato una “logica” che poteva essere “penetrata”.

Inizialmente la depressione venne trascurata dalla psicoanalisi in quanto non espressione manifesta di sintomi drammatici interpretabili come simboli di problemi più profondi.

Soltanto dopo che Freud ebbe studiato l’isteria, le ossessioni, i lapsus, i sogni, le battute di spirito, la sessualità infantile e la paranoia; egli rivolse la sua attenzione agli stati depressivi.

Nel 1911 Karl Abraham pubblicò quello che può essere considerato il primo studio psicoanalitico sulla depressione. Nei suoi saggi Abraham parlava di valore dell’ostilità e dell’oralità nella depressione.

Gli scopi sessuali non gratificati provocano sentimenti di odio e di ostilità che riducono la capacità di amare del paziente, il quale proietta all’esterno tale “risentimento di contrarietà”   che si “rivelerà” nei sogni e nel comportamento, in un desiderio di vendetta, nella tendenza a infastidire, in idee di colpa e in un impoverimento emotivo.

La psiconevrosi veniva spiegata come il risultato della rimozione della libido, cosicché, in questo primo lavoro, Abraham confrontò la depressione con l’ansia, ritenuta anch’essa il risultato di pulsioni rimosse: mentre l’ansia sorge quando la rimozione impedisce il conseguimento della gratificazione desiderata, ma ancora potenzialmente soddisfabile, la depressione sorge quando il soggetto ha ormai perso la speranza di soddisfare le sue aspirazioni libidiche.

Nella depressione tale aspirazione è così profondamente rimossa che il soggetto è incapace di sentirsi amato o capace di amare, abbandonando la speranza di poter mai raggiungere una intimità emotiva. Abraham applicò la dottrina della eccessiva rimozione della libido alla depressione e descrisse sei pazienti depressi da lui trattati. Egli pose l’attenzione sulla somiglianza tra pazienti depressi e ossessivi: in entrambi gli stati l’aspirazione all’amore viene inibita da forti sentimenti di odio, a loro volta rimossi dal soggetto per la loro estrema ostilità. I depressi e gli ossessivi si differenziano nel modo in cui gli impulsi inibiti trovano un’esperienza sostitutiva.

I processi dinamici interni del depresso sono governati dal sentimento fondamentale di non riuscire ad amare gli altri e quindi di dover odiarli; ma questo riconoscimento dell’odio è inaccettabile e deve essere rimosso.

L’ostilità viene così proiettata sugli altri e il pensiero cosciente si trasforma sul fatto che sono gli altri a non amarlo e ad odiarlo.

Abraham affermò anche che l’enorme senso di colpa del depresso è dato dai suoi desideri distruttivi reali che rimangono inconsci; questa ostilità rimossa si manifesta chiaramente nei sogni, nei lapsus e in altri atti simbolici.

Cinque anni dopo Abraham da il suo secondo contributo sui disturbi affettivi (“Il primo stadio progenitale della libido”), cercando di integrare le teorie che Freud aveva esposto nei suoi “Tre saggi sulla teoria sessuale” (1915).

Abraham interpretò la depressione come una regressione alla prima fase psicosessuale, ovvero alla fase orale, quindi il depresso nutre nell’inconscio un desiderio di distruggere oralmente l’oggetto responsabile dei due principali sintomi depressivi: il rifiuto del cibo (cibo come oggetto d’amore che il soggetto teme di distruggere) e la paura di morire di fame. Anche nel suo terzo contributo alla depressione Abraham (1924) continuò a far risalire le origini del disturbo allo stadio orale notando la somiglianza tra ossessivi e melanconici: entrambi regrediscono a stadi progenitali precoci ma, mentre l’ossessivo si accontenta di un controllo inconscio sull’oggetto d’amore, il depresso arriva a distruggere l’oggetto psichico interiorizzato.

Karl ABRAHAM (1877-1925).

 

Il saggio “Lutto e melanconia” che Freud scrisse nel 1915, ma che apparve nel 1917 a causa della guerra, espresse un certo interesse per la depressione forse stimolato dal lavoro di Abraham. Freud confrontò la melanconia con il fenomeno del lutto: entrambi gli stati hanno in comune un senso di doloroso abbattimento per una perdita, una mancanza di interesse nei confronti del mondo esterno, la perdita della capacità di amare e un’inibizione dell’attività. Tuttavia solo la melanconia mostra una diminuzione della stima di sè al punto che vi sono delle espressioni di autorimprovero ed una aspettativa irrazionale di punizione; inoltre il melanconico non sa bene di che natura sia la sua perdita e non è consapevole di ciò che ha dato luogo alla sua prostrazione. Freud si convinse sempre più che la perdita fosse interiore ed inconscia, anche la perdita della stima di sè indica un impoverimento interiore; egli disse: “Nel lutto è il mondo che è diventato povero e vuoto; nella melanconia si impoverisce l'Io stesso".

 

Sigmund FREUD (1856-1939).

 

Freud prese spunto dagli autorimproveri inappropriati dovuti ad una scissione nell’Io del melanconico, in cui una parte si differenzia e si contrappone all’altra, la giudica criticamente e la osserva come se fosse un oggetto esterno (la parte giudicante dell’Io venne chiamata la coscienza ma diventerà più tardi il Super-Io).

Da qui Freud ipotizzò che gli autorimproveri siano in realtà diretti a qualche persona che il paziente ama, ha amato o avrebbe dovuto amare: sono rimproveri rivolti ad un oggetto amato che è stato spostato nell’Io stesso del paziente.

Il melanconico pertanto non ha bisogno di vergognarsi di tali “critiche” perchè rivolte a qualcun altro. Il processo intrapsichico di spostamento di un oggetto nell’Io, per Freud ha origine nell’infanzia, dove il futuro melanconico avrebbe avuto un intenso rapporto oggettuale compromesso a causa di una delusione vissuta con la persona amata. Dopo la rottura del rapporto la libido liberata non è stata trasferita ad un altro oggetto ma è stata trasferita nell’Io. L’immagine interiorizzata dell’oggetto perduto diventa soggetta ai sentimenti della persona e al disprezzo e all’odio che sarebbero stati diretti all’oggetto perduto. Le perdite successive riattivano la perdita primaria e fanno si che la furia del paziente si diriga verso l’oggetto deludente originale, che si è fuso con una parte dell’Io del paziente. In casi estremi il sadismo è così violento che l’individuo desidera distruggere completamente l’immagine interna dell’oggetto e si suicida.

Per la maggior parte dei melanconici si ottiene una sufficiente gratificazione denigrando l’immagine, cosa che appare come un autorimprovero. Quando questa furia si è spenta, oppure l’immagine dell’oggetto è stata abbandonata, la malattia passa, finchè un’altra perdita riattiva l’intero processo.

L’effetto di questo lavoro fu notevole in quanto propose un modello del tutto nuovo di malattia: l’espressione di un “affetto” verso un oggetto incorporato. Nonostante la formulazione di Freud abbia avuto i suoi problemi sia dal punto di vista clinico, sia teorico, “Lutto e melanconia” resta un classico nella letteratura psicoanalitica.

Freud riuscì a vedere che nella depressione una persona influisce sullo stato mentale di un’altra, e che la perdita di questa persona da luogo ad una perdita interna per il depresso. Egli quindi riconobbe la natura interpersonale del disturbo e cercò anche di dimostrare che i depressi sono predisposti al loro disturbo da avvenimenti infantili, in genere delusioni da parte di persone significative che li hanno portati ad una ambivalenza in tutti i loro rapporti.

Una revisione della teoria psicoanalitica venne descritta in modo completo e creativo da Sandor Rado.

 

Sandor RADO (1890-1972)

 

Nel suo lavoro (1928), Rado considerò la depressione in termini dei rapporti concatenati fra Io, Super-Io e oggetto d’amore.

Egli affermò che il depresso è una persona con intensi bisogni narcisistici e una precaria autostima che, quando perde l’oggetto d’amore, reagisce dapprima con ribellione arrogante e poi cerca di ristabilire la propria autostima facendo punire l’Io dal Super-Io. Non appena il depresso è sicuro dell’amore dell’altro, tratta la persona amata con una “sublime noncuranza”, che progredisce gradualmente fino ad un controllo dominatore e tirannico dell’oggetto d’amore.

Questo comportamento può finire con l’allontanare la persona amata, che non tollererà più questo maltrattamento. Se si verifica questa perdita, sapraggiungerà uno stato depressivo.

Una persona incline alla depressione benchè maltratti e provochi la persona amata, ha disperatamente bisogno del costante nutrimento dell’altro, sembra esageratamente dipendente dagli altri per una gratificazione narcisistica e per il mantenimento della stima di se’. Durante i periodi di depressione, che si verificano dopo che l’oggetto è stato allontanato, il depresso “si riempie” di rimorso, implora perdono e spera di riguadagnare l’oggetto perduto inducendo pietà e colpa.

Questo schema di ostilità-colpa-costrizione venne spiegato da Rado come insorgente nella prima infanzia, quando il bambino apprende che può ottenere il perdono e riguadagnare l’amore della madre attraverso un comportamento che mostra rimorso. Questa sequenza colpa-espiazione viene ricondotta ad una precedente progressione di rabbia-fame-suzione al seno materno. Rado insistè molto sul fatto che il desiderio di essere nutrito al seno della madre è al centro della melanconia e che la sua persistenza inconscia nella vita adulta spiega sia la fissazione orale che il bisogno di nutrimento emotivo esterno. Se il depresso non riesce a riottenere l’amore dell’oggetto perduto, egli procede verso una forma più grave di melanconia in cui il dramma interpersonale viene sostituito da una lotta intrapsichica.

Nella concezione di Rado è evidente l’influenza di Abraham e di Freud, ma egli vi aggiunse nuovi contributi originali, quali il bisogno che il depresso ha degli altri per sostenere la propria stima di se’, e la ripetizione di uno schema infantile di rabbia-espiazione.

Nel 1945 Fenichel pubblicò l’enciclopedico sommario di psicoanalisi, dove dedicò un capitolo alla depressione e in cui vi espose le vedute psicoanalitiche dell’epoca sulla malattia.

 

Otto FENICHEL (1897-1946)

 

In questo lavoro egli ricordò le formulazioni di Freud, di Abraham e di Rado, ma diede anche molta importanza ad un altro aspetto della depressione, destinato ad esercitare molta influenza sul corso del pensiero psicoanalitico successivo: la caduta della stima di se’. Tale orientamento è stato seguito da tre teorici:  Jacobson, Bribing e Sandler.

Ciascuno di questi scelse la regolazione della stima di se’ come fattore centrale nella depressione, equiparando la stima di se’ alla discrepanza vissuta fra il Se’ reale e un Io ideale desiderato.

La Jacobson suppose che gli obiettivi dello sviluppo dell’autostima, del Super-Io e dell’ ideale dell’Io sono la salda instaurazione della propria identità, la differenzazione del proprio Se’ dagli altri, la conservazione dell’autostima e la capacità di elaborare relazioni oggettuali soddisfacenti.

Ella ritenne che l’autostima “rappresenta il grado di discordanza o di armonia tra le rappresentazioni di se’ e il concetto di se’ auspicato”.

 

Edith JACOBSON (1897-1978)

 

La Jacobson distinse le depressioni nevrotiche da quelle psicotiche cercando di chiarire la natura della regressione dell’Io nella depressione psicotica e suggerì che la delusione precoce ed eccessiva nei confronti dei genitori, con la conseguente valutazione di questi e del Se’, si verifica nei primi anni di vita dei pazienti depressi.

Il maniaco-depressivo prepsicotico presenta un insolito grado di dipendenza e un’intolleranza estrema per l’offesa, la frustazione o la delusione.

La sua difesa caratteristica, adottata di fronte ai sentimenti di offesa o delusione, è il diniego: questo “funzionamento” può assumere dimensioni tali da far perdere al paziente il contatto con la realtà e da farlo entrare in uno stato maniacale.

Bibring ritenne che la predisposizione alla depressione derivasse da esperienze traumatiche della prima infanzia. Egli presentò brevi quadri di pazienti depressi in seguito a svariati eventi della vita e suggerì che tutte le reazioni depressive hanno qualcosa in comune, benchè si presentino sotto svariate forme.

Tutti si sentono impotenti di fronte a forze superiori o non possono sfuggire alla sensazione di essere dei “falliti”; in sostanza tutti hanno subito un danno alla stima di se’. Egli concluse mostrando che la depressione è l’espressione del sentimento o della consapevolezza da parte dell’Io della propria debolezza e impotenza.

L’originalità di Bibring sta nel fatto che egli vide la combinazione tra il senso di impotenza e la discrepanza tra la propria situazione reale ed un insieme di circostanze ideali come fonte di una tensione all’interno dell’Io stesso, e non di un conflitto tra l’Io e l’ambiente; quindi la depressione è il corrispettivo emotivo di un particolare stato dell’Io.

Bibring confrontò la depressione con l’ansia, concludendo che entrambe sono esperienze primarie che non possono essere ulteriormente analizzate.

Benchè tale osservazione possa apparire troppo semplice, allo stesso tempo ci porta molto lontano: unifica la depressione normale, nevrotica e psicotica; in quanto dovute allo stesso meccanismo fondamentale.

Sandler e Joffe raggiunsero conclusioni simili a quelle di Bibring: anch’essi percepirono la depressione come un’emozione di base, provata quando si crede di aver perduto qualcosa che è essenziale al proprio stato di benessere ma, allo stesso tempo, quando ci crediamo incapaci di rimediare a tale perdita.

Sandler e Joffe postularono inoltre che ciò che appare nella depressione sia un sentimento di integrità narcisistica, e non un “oggetto” particolare.

Essi concepirono tale stato come la sensazione di essere stati privati di uno stato ideale, il cui tramite è spesso, ma non solo, un rapporto con un’altra persona. Come Bibring, anche Sandler e Joffe pensano che la reazione iniziale depressiva susciti delle difese e non proceda sempre verso un episodio depressivo clinico.

Melanie Klein fu una pensatrice originale, che diede luogo ad un sistema autonomo di interpretazione psicodinamica, il quale si organizzò in un gruppo separato di discepoli chiamato genericamente la scuola inglese di psicoanalisi.

 

Melanie KLEIN (1882-1960)

 

I suoi contributi allo studio della depressione si possono capire se inseriti nel contesto del suo sistema generale (vedi posizione schizoparanoidea e posizione depressiva).

La Klein ritenne che la predisposizione alla depressione non traesse origine da incidenti traumatici, bensì dal rapporto madre-figlio nel primo anno di vita: si sperimenta una depressione quando l’Io si identifica con le sofferenze degli oggetti buoni sottoposti agli attacchi degli oggetti cattivi, naturalmente interiorizzati dal bambino.

La Klein mise in rapporto la sofferenza del melanconico adulto con i sentimenti di colpa e di rimorso del lattante.

Il più importante fattore che genera melanconia, secondo la Klein, è l’incapacità del bambino di collocare il suo oggetto buono e amato all’interno dell’Io.

Questo è responsabile di un sentimento di “cattiveria” che dura tutta la vita e che non viene proiettato all’esterno bensì incorporato nell’immagine di se’.

In generale, per la Klein, la depressione occupò un posto centrale in psicopatologia in quanto posta alla base di molte altre entità cliniche; in questo la sua posizione fu simile a quella di Sandler e Bibring: lo stato depressivo è una situazione quasi di base da cui ci si deve difendere; tuttavia nel sistema kleniano la depressione rappresenta uno stadio normale dello sviluppo.

Il limite della Klein fu forse quello di ignorare totalmente l’ambiente, di fermarsi soltanto sull’evolversi innato dei processi istintuali e, più tardi, sulla battaglia interiore tra gli oggetti interiorizzati.

 

Donald Woods WINNICOTT (1896-1971).

 

In seguito a tale critica i suoi seguaci quali Fairbairn, Winnicott  e Guntrip cercarono di prendere maggiormente in considerazione i fattori ambientali, in modo che i rapporti oggettuali si potessero riferire ad oggetti non solo interni, ma anche esterni.

 

William Ronald D. FAIRBAIRN (1889-1964)

 

La Klein rimase per così dire chiusa in un “mondo intrapsichico”, come del resto tutti gli autori che ho trattato fino ad ora, ignorando, nelle loro elaborazioni sulla depressione, l’importante valore degli scambi interazionali significativi per la persona.

 

Fonti Bibliografiche:

 

-Abraham, K. (1919). “Abraham Opere”, Torino: Boringhieri, 1975.

-Arieti, S. & Bemporad, J. (1978). “La depressione grave e lieve”, Milano: Feltrinelli, 1987.

-Beck, A. (1987). “ La Depressione”, Torino: Boringhieri.

-Freud S. (1905). “Tre saggi sulla teoria sessuale”, Torino: Boringhieri, 1993.
-Freud S. (1914). “Introduzione al narcisismo”, Torino: Boringhieri, 1975.

-Freud, S. (1915).” Lutto e melanconia”, Torino: Boringhieri, 1976.

-Jacobson, E. (1964). “Il Sé e il mondo oggettuale”, Firenze: Martinelli, 1974.

-Klein, M. (1957). “Invidia e gratitudine”, Firenze: Martinelli, 1969.