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L’ ARTE NELLA MALATTIA

 

 “La bellezza delle cose esiste nella mente di colui che la contempla” (David Hume).

 

Esistono artisti che dipingono ciò che vedono, altri che dipingono ciò che ricordano o ciò che immaginano. Il nostro cervello si modifica in base alla realtà che esperisce e, a sua volta, è capace di cambiare la realtà stessa: un cervello diverso dovrà pertanto avere un rapporto diverso con la realtà .Nell’ arte questo “processo” può portare alla creazione di nuove realtà, che solo in parte dipenderanno dall’ ”informazione sensoriale”; il nostro cervello, infatti, non ha necessariamente bisogno del continuo “flusso informativo” proveniente dai nostri sensi (“Nihil in intellectu quod prius non fuerit in sensu”). I sogni, i ricordi che “rivivono” nelle immagini mentali e anche, rappresentazioni “semplicemente” create dalla nostra mente testimoniano questo evento. In questo senso l’arte amplifica la realtà, crea un nuovo “canale mentale” in grado di aprirsi a nuove esperienze.   Gli stimoli visivi,  reali  o evocati dalla memoria, che  hanno eccitano il sistema nervoso dell’artista al momento della creazione dell’opera d’arte, trasformati dalla sua mano in colori e forme, in un certo senso, ridiventano efficaci per la stimolazione del sistema nervoso dell’osservatore. L’opera d’arte deve riuscire a suscitare nel cervello dell’osservatore sensazioni ed emozioni che sono state presenti nel cervello dell’artista [Maffei L., Fiorentini A., 1995]. Accostarsi ad un opera d’arte, guardarla, percepirla, comprenderla e apprezzarla, implica il coinvolgimento di molte strutture cerebrali e l’attivazione di meccanismi ben specifici, a partire dai funzionamenti alla base della percezione visiva, a quelli implicati nella cosiddetta “psicologia del vedere”, nell’esperienza estetica ed emozionale. Questo si riferisce non solo all’emozione provata da chi gusta un dipinto ma anche al momento creativo che coinvolge l’artista per realizzare la sua opera. Alcuni ricercatori, soprattutto psicologi e neurofisiologi, sono rimasti affascinati dalla possibilità di studiare le proprietà e le caratteristiche del cervello che rientrano nella valutazione di un’opera d’arte e nel piacere che essa può dare; persuasi dall’idea che la comprensione di tali meccanismi cerebrali, insieme alla conoscenza delle vicende della vita di un artista e della cultura del suo tempo, possano favorire una maggior “cognizione” e apprezzamento dell’opera e di chi le ha dato vita. Un’ opera d’arte nasce dalla combinazione di ciò che l’artista esperisce “visivamente” e da come interpreta quanto gli viene comunicato dal mondo esterno. Sia l’acquisizione dell’informazione visiva, sia la sua elaborazione interiore possono essere alterate da cause patologiche. Gli effetti di gravi malattie mentali, spesso, alterando le capacità percettive ed emotive dell’artista, possono influire sulla sua espressione pittorica e testimoniano come la storia di vita del pittore entri a far parte integrante della sua opera. Tutto ciò affiora nei quadri di alcuni grandi pittori in momenti particolari della loro vita.

 Francisco Goya (1746-1828) fu affetto da un’ encefalopatia, dovuta ad intossicazione da piombo (elemento allora presente nei pigmenti di vari colori), che gli provocò sordità e alterazione della personalità. Dapprima la sua malattia lo ostacolò in ogni attività e fu la causa di una profonda depressione; figure da incubo popolarono i suoi quadri quando ricominciò a dipingere. 

Francisco Goya, Particolare “Crono divora i suoi figli”  Madrid, Museo del Prado.

  

Quest’opera appartiene all’attività più tarda di Goya e fa parte della famosa serie di “pitture nere” della Quinta del Sordo, la sua abitazione privata nella campagna sulle sponde del Manzanarre, dall’artista stesso decorata. Goya, quando dipinse questa figurazione mitologica, era ormai quasi completamente sordo, solo e in preda all’angoscia di cui è testimonianza gran parte della produzione della sua vecchiaia. L’opera, dipinta con inedita crudezza, vuole assumere probabilmente un significato politico: Saturno che divora uno dei suoi figli sembra simboleggiare il tiranno che divora i suoi sudditi, un' allusione dell’artista, fortemente avvilito dalle vicende politiche europee e spagnole, a Ferdinando VII. Goya dipinse la figura mostruosa con toni grigiastri e ocra, sul corpo dilaniato del figlio spicca il rosso del sangue; la scena raccapricciante è intrisa di un’ atmosfera  “allucinata”.

La depressione che afflisse Michelangelo (1475-1564), invece, fu di origine psichica.  Nel dipingere il volto di San Bartolomeo mentre mostra al Giudice il coltello, l’artista riportò nelle pieghe della pelle del martirio un dolorante autoritratto.

 

Michelangelo Buonarroti, Particolare “Giudizio Universale”  Roma, Cappella Sistina.

 

I sistemi percettivo, emotivo ed espressivo di altri grandi pittori sono stati, in modo più drammatico, alterati da gravi malattie mentali, quali la schizofrenia e la sindrome maniaco- depressiva.  Gruesser et al., (1988) descrisse, quale particolare disturbo caratteristico di pazienti schizofrenici, l’anormale percezione delle facce. I volti osservati da questi pazienti potevano cambiare velocemente la loro espressione, assumendo sempre più le sembianze di un mostro: la bocca si apriva mettendo in evidenza i canini sporgenti, il naso e gli occhi divenivano più grandi, le pupille si dilatavano.  Alcuni disegni o dipinti riportati da pazienti affetti da schizofrenia mettono in evidenza questa particolare caratteristica e mostrano, pur comunicando la sofferenza e le distorsioni percettive di questa terribile malattia, come la “pazzia” possa, in alcuni casi suggerire una “geniale” creatività artistica. Deformazioni delle facce, volti ansiosi ed impauriti, espressioni ossessive sembrano raggiungere i limiti della patologia nel pittore James Ensor (1860-1949). Le tele dell’artista cominciano a popolarsi di bizzarre figure fino a raggiungere l’apoteosi del sovraffollamento in quello che è considerato il suo capolavoro: L’Entrata di Cristo a Bruxelles. Le strane figure del dipinto possono sembrare il frutto di allucinate visioni ma, allo stesso tempo, attingono ad una realtà sovrannaturale; la maschera con il riso assume valore ambivalente perché il suo uso permette, attraverso il travestitismo, di modificare ciò che dietro vi si nasconde. Ancora una volta i confini della patologia, come quelli tra “realtà” e “allucinazione”, divengono sfumati e faticosamente distinguibili. 

James Ensor, “L’entrata di Cristo in Bruxelles”  Malibu,  Getty Museum.

 Edvard Munch (1863-1944) si ritiene fosse affetto da una sindrome schizoide.  Il pittore norvegese, nel suo famoso quadro Il grido, sembra voler svelare la sua angoscia, presumibilmente di origine patologica.  Queste parole, scritte da Munch per descrivere Il grido, danno solamente un’idea della forte sensazione che ha portato l’autore a realizzare quest’opera:

Una sera passeggiavo per un sentiero,
da una parte stava la città e sotto di me il fiordo.
Ero stanco e malato.
Mi fermai e guardai al di là del fiordo
- il sole stava tramontando -
le nuvole erano tinte di un rosso sangue.
Sentii un urlo attraversare la natura:
mi sembrò quasi di udirlo.
Dipinsi questo quadro,
dipinsi le nuvole come sangue vero.
I colori stavano urlando.

Edvard Munch, “Il Grido”  Nasjonalgalleriet, Oslo.

 

Il grido, o L’urlo, come viene spesso chiamato nella traduzione italiana, fa parte di una serie di opere  intitolata dall’autore stesso “Fregio della vita”. Il contenuto dell’opera raffigura un uomo che si rifiuta di sentire il suo stesso urlo di dolore: il particolare clima culturale e politico favorisce il rifiuto di essere messi di fronte alle proprie angosce esistenziali, tanto che nel 1982 la mostra delle opere di Munch a Berlino venne chiusa dalle autorità per lo scalpore suscitato. L’alterazione ai fini espressivi della realtà, della forma e del colore: contorni dissolti, forme indefinite, colori irreali, contrastanti, sono il mezzo attraverso il quale Munch perviene ad una personalissima interpretazione dell’angoscia esistenziale dell’uomo e, rendendola visibile, la diffonde nell’animo di chi la comtempla. Gli accostamenti cromatici e la deformazione dei soggetti rappresentati, ottenuta attraverso lunghe pennellate, assumono in Munch un preciso scopo funzionale: l’opera deve agire nell’animo di chi la osserva perché è espressione diretta dell’animo di colui che l’ha creata. Tratti ondulati associati a linee diagonali creano un senso di dinamicità che provoca tensione. La luce, che va a colpire frontalmente la figura principale, conferisce immediatezza all’evento diffondendo un senso di inquietudine. La comunicazione di precisi stati emotivi, che negli impressionisti giocava tutta sull’impressione visiva, sembra, in Munch, spingersi ed agire a un livello più inconscio.  La creatività di Munch afferma la sua ossessione per le problematiche della vita e della morte (l’artista fu influenzato dal filosofo Nietzche e dallo scrittore Strindberg), la sua visione pessimistica della società e del mondo e Il grido diventa il simbolo delle ansie e delle inquietudini di un intero secolo. Riguardando la sua opera compiuta, Munch disse: "Solo un folle poteva dipingerlo".

 

Vincent van Gogh (1853-1890)  è considerato oggi “il pittore malato” per eccellenza.  La natura della sua malattia, che si manifestò prima dei trent’anni, è stata oggetto di  numerose ricostruzioni e interpretazioni diagnostiche, fondate soprattutto sulle numerose lettere che van Gogh stesso scrisse al fratello Theo. Ampia è la letteratura riguardante le cause delle sua malattia, le quali suscitano ancora oggi grande interesse [Arnold, 1992; 2004; Blumer, 2002; van Meekeren, 2000; Strik, 1997; Meissner, 1994; Lemke, 1993; Rahe, 1990; 1992]. Nel momento in cui le sue crisi, caratterizzate soprattutto da allucinazioni e attacchi di tipo epilettico, si manifestavano, l’artista “cadeva” in uno stato di profonda depressione, ansietà e confusione mentale, tanto da renderlo totalmente incapace di lavorare. Dapprima si pensò che si trattasse di epilessia, ma questa ipotesi rimane solo in parte convincente in quanto non è provato che van Gogh soffrisse dei sintomi che caratterizzano il “grande male” (convulsioni di tipo motorio, tonico-cloniche), tanto meno delle manifestazioni proprie del “piccolo male”. Questa prima ipotesi diagnostica, d’altro canto, fu probabilmente formulata non in base ai sintomi che distinguevano la sua malattia, ma da ciò che van Gogh disse di sé: “…sono un pazzo o un epilettico”.

Sulla base, soprattutto, delle allucinazioni di cui soffriva e in seguito ad un episodio di paranoia, nel quale fu tormentato dalla convinzione che i vicini lo volessero avvelenare, Jasper ipotizzò che l’artista potesse essere schizofrenico, ma anche questa supposizione pare soddisfare solo in parte i criteri che rientrano nel quadro della schizofrenia. Un’ ulteriore trattazione è quella proposta da Arnold (1992), il quale riscontra nei sintomi dichiarati dal pittore una somiglianza con quelli propri di una rara malattia eridataria: la porfiria acuta intermittente.

Questa patologia si manifesta in età adulta con attacchi improvvisi, intervallati da periodi di benessere; disturbi gastro-intestinali gravi, neuriti periferiche, disturbi psichiatrici con allucinazioni ne caratterizzano il quadro sintomatologico, nonché quello proprio della malattia di van Gogh. E’ noto inoltre che, come numerosi artisti dell’epoca (Manet, Degas, Toulouse-Lautrec), anche van Gogh facesse uso di una bevanda alcolica decisamente tossica ma assai in voga nella Francia di quel periodo: l’assenzio. Questo liquore dal colore verde intenso, che diviene giallo se allungato con acqua, si ricava dalla pianta Artemisia absinthium e contiene, oltre all’alcol, alcuni olii essenziali molto tossici, dagli effetti dannosi sul sistema nervoso, come il tuione in grado di provocare allucinazioni visive ed attacchi epilettici.  Quindi, come sostengono numerosi studiosi [Holstege et. al., 2002; Berggren, 1997; Bonkovsky et al., 1992; Arnold, 1988] l’uso di assenzio e di altre bevande alcoliche, associato ad una cattiva o scarsa nutrizione devono aver aggravato i sintomi della sua malattia. Il pittore Paul Signac, amico di van Gogh, raccontò un episodio che sottolinea l’ultimo periodo della vita del grande pittore:“ Tutto il giorno mi aveva parlato di pittura, letteratura, socialismo. A sera era un po’ stanco. […] Voleva bere d’un colpo un litro di essenza di trementina, che si trovava sul tavolo della camera”. Un anno prima della sua morte van Gogh, dopo una violenta discussione con il pittore amico Gauguin, si recise l’orecchio sinistro per poi regalarlo ad una prostituta. Un suo autoritratto testimonia l’episodio di automutilazione che contrassegnò la sua malattia.

Vincent van Gogh, “Autoritratto con orecchio tagliato” Collezione privata

 

Alcuni studi [Lee, 1981; Lanthony, 1989; Arnold, 1991; Elliot, 1993] hanno tentato di mettere in relazione la malattia di van Gogh con la sua passione per il colore giallo, che predomina nelle tele del periodo francese. Forse minimizzando un po’ la sua “reale” creatività questi autori sostengono che i colori caldi - e così “veri” – gli furono ispirati soprattutto dalle allucinazioni visive, in grado di alterare il senso cromatico e la percezione di forma e dimensione.  Molti suoi capolavori possano apparire realmente “allucinati”, ma forse la creatività di van Gogh nasceva anche dalla “geniale” capacità  di guardare la realtà da prospettive non ordinarie.
 

Vincent van Gogh, “Il Caffè di notte” New Haven, Yale University Art Gallery

 

Il quadro rappresenta l'interno di un caffè che si trovava nella place Lamartine ad Arles. Al fratello Theo, van Gogh scrisse del ruolo emotivo ricoperto dal colore nella sua pittura e a proposito di questo dipinto dirà: "Ho cercato di esprimere con il rosso e il verde le terribili passioni umane. La sala è rosso sangue e giallo opaco, un biliardo verde in mezzo, quattro lampade giallo limone a irradiazione arancione e verde. C'è dappertutto una lotta e un'antitesi dei più diversi verdi e rossi, nei piccoli personaggi di furfanti dormienti, nella sala triste e vuota, e del violetto contro il blu". In tal modo van Gogh sembra rinunciare alla resa della luce degli impressionisti per tornare all'esaltazione dei sentimenti forti espressa dal colore.

 

Uno degli ultimi dipinti realizzati da van Gogh è questo campo di grano dalla pennellata vorticosa e tormentata. Le condizioni di salute del pittore peggiorarono. A proposito di questo quadro scrisse: "... ho ancora dipinto tre grandi tele. Sono immense distese di grano sotto cieli tormentati, e non ho avuto difficoltà per cercare di esprimere la tristezza, l'estrema solitudine". In uno di questi campi, di lì a pochi giorni, si sparerà, e morirà due giorni dopo.

 

Vincent van Gogh, “Campo di grano con corvi”  Amsterdam, Rijksmuseum Vincent van Gogh.

 

Credo non si possa pensare alla creatività di van Gogh e alla “originalità” dei suoi dipinti solo come caratteristica dei “limiti” di una patologia: Vincent Van Gogh non finì mai di dipingere e rimase meravigliosamente creativo fino alla sua morte.

  

  Articolo di Cristina Bergia,

  pubblicato su PsicoLAB, Laboratorio di Ricerca e Sviluppo, all'interno di PsicArte.net, il 14/05/2005.

  http://www.psicolab.net/index.asp?pid=idart&cat=6&scat=109&arid=655 .

 

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