Drammatizzare l'impresa: breve storia sull'utilizzo dello strumento teatrale nel mondo del lavoro

Teatro e mondo del lavoro: i primi approcci

 

3.1: Le metodiche d’intervento: il quadro teorico di riferimento.

 

Se facciamo un teatro non è per rappresentare lavori, ma per riuscire a far in modo che quanto c’è di oscuro nello spirito, di occultato, di irrivelato, si manifesti in una specie di proiezione materiale, reale. Non ci proponiamo, come è stato fatto finora, com’è sempre stato richiesto al teatro, di dare l’illusione di ciò che non è; ma al contrario, di far apparire agli sguardi un certo numero di scene, di immagini indistruttibili, incontestabili che parlino direttamente allo spirito. […] Concepiamo il teatro come una vera operazione di magia. Non ci rivolgiamo agli occhi, né all’emozione diretta dell’anima; quello che cerchiamo di suscitare è una certa emozione psicologica, in cui saranno messi a nudo gl’impulsi più segreti del cuore234.

 

Con il suo provocatorio Manifesto per un teatro abortito, scritto l’8 gennaio 1927, Artaud voleva segnare una drastica rottura tra il suo modo di concepire il teatro, ossia di intenderlo in maniera del tutto nuova ed opposta, rispetto a quello tradizionale, ancora imbrigliato in convenzioni e schemi prefissati.

Il suo obiettivo era quello di realizzare, attraverso un atto rivoluzionario, un cambiamento forte del teatro, il che, in un certo senso, significava volerlo riportare alle sue origini, alla magia dei gesti dell’uomo che parlano all’uomo, che riscoprono il senso originario degli atti spirituali e dell’anima: stiamo parlando di un teatro il cui obiettivo è quello di dare parola anche al cuore.

Pur dovendo riconoscere l’arditezza di questi pensieri e soprattutto la loro complessità, quello che mi sembra ancora oggi valga la pena di sottolineare del messaggio di Artaud consiste nella sua capacità e volontà di dare al teatro uno statuto in grado di differenziarlo positivamente dalle altre forme artistiche, conferendogli un elevato valore euristico che esula dal semplice portare in scena uno spettacolo e divertire un pubblico.

Infatti, nonostante le suggestioni evocate da Artaud possano apparirci come allucinazioni di un visionario, il suo messaggio però è di una lucidità disarmante: occorre riscoprire l’efficacia dello strumento teatrale, la sua capacità di provocare emozioni forti che colpiscano direttamente l’anima dell’uomo, costringendolo ad una trasformazione personale che lo inviti a mettere in discussione le sue certezze e ad affrontare anche le sue paure.

Proprio il modo di pensare espresso da Artaud, ossia di intendere il teatro come un bene “necessario” per l’individuo, un prezioso strumento di aiuto per risolvere le problematiche umane e non invece solo come un piacevole mezzo di divertimento capace di allietare le persone nei momenti in cui ritengono di averne più bisogno, stimola a volerlo impiegare anche in un ambito che solitamente gli è estraneo, ossia quello della realtà aziendale.

In particolare due caratteristiche tipicamente legate al teatro sono essenziali per capire la sua specificità rispetto ad altre forme mediatiche e per legittimare la sua vocazione ad essere impiegato in campi diversi da quello della recitazione fine a se stessa: sto parlando dell’importanza che la componente ludica e quella della gestualità rivestono per la realizzazione degli scopi che esso si prefigge.

Cercherò adesso di dimostrare proprio come attraverso l’uso di queste peculiarità il teatro riesca ad entrare anche nella realtà dell’impresa, apportandovi il suo specifico contributo.

Ma andiamo con ordine; innanzitutto bisogna riconoscere che ciò che differenzia il teatro dagli altri riti culturali e dagli altri media, è sicuramente il fatto di intrattenere una relazione del tutto particolare con il gioco, non un gioco qualsiasi, ma semmai uno del tutto singolare: quello della vita.

Infatti il teatro rappresenta il gioco esemplare dal quale discendono poi tutti gli altri giochi; esso è allo stesso tempo il gioco del corpo, della relazione, il gioco sociale e proprio questo permette allo spettatore che va oggi a teatro di assistere, non semplicemente ad un grande spettacolo o di identificarsi in un personaggio ma piuttosto di vedere come giocano gli attori più bravi ed imparare poi da loro a fare anche lui la stessa cosa nella vita reale, per trovare altri con cui giocare, spazi in cui divertirsi a creare, tempi in cui gioire delle proprie capacità.

Come il mondo teatrale, così la vita è in molti momenti un gioco drammatico, in cui si esce spesso sconfitti o umiliati. Ma è sempre un gioco. Incerto nel suo esito, appassionante o noioso, da vivere da protagonisti o da comparse, con finale tragico o comico, in cui si è applauditi o fischiati dagli altri, in tutti i casi l’unica “azione” che ti fa sentire vivo.

Proprio la peculiarità del teatro di consentire a chi se ne serve di poter partecipare in anteprima al gioco della vita, lo fa essere una sorta di palestra, una forma di sperimentazione dove poter verificare il proprio potenziale vitale, dove incontrare parti del sé, rappresentarle in una situazione protetta che si dona all’altro e che quindi cerca un confronto fondativo rispetto alla propria identità; ci troviamo di fronte ad una dimensione del “come se”, della prova, dell’ipotesi ma che comunque non può mai prescindere dall’azione e quindi dall’affrontarne le conseguenze.

Ecco perché il fare teatro rimane sempre un gesto concreto ed autentico, che esige decisione e consapevolezza da parte di chi lo pratica; proprio come l’attore di teatro, il quale ha un tempo per le prove e uno spazio per i tentativi e gli errori, ma poi, durante lo spettacolo, deve assolutamente riuscire ad essere credibile davanti allo sguardo del pubblico implacabile, così nella vita reale ci sono le prove, i tentativi e gli errori, ma poi ci sono i comportamenti, i gesti e le parole per i quali siamo chiamati ad assumere una responsabilità effettiva235.

Come riconosce bene Giulia Innocenti Malini, <<[…] l’esperienza teatrale, in quanto tale, permette l’avvicinamento all’altro non solo attraverso una comprensione, più o meno razionale, del suo essere, ma anche attraverso la possibilità di rappresentarlo, di riconoscere sé e le proprie emozioni in questa situazione, di incontrare l’altro sperimentando il suo vissuto e, dunque, sviluppando una relazione di tipo empatico>> ed ancora <<[…] l’altro di cui si parla non è necessariamente un altro reale, può essere un ruolo, o un eroe moderno, o un’età della vita. Questo incontro avviene nel luogo protetto del “come se”, dove ciò che succede non ha effetti reali incontrollabili, pur mantenendo un fondamentale valore sperimentale capace di accrescere la percezione della realtà e la competenza emotiva>>236.

Si tratta quindi di vedere nello strumento teatrale anche la sua peculiare valenza educativa, cioè la sua capacità di stimolare l’individuo ad un corretto uso delle emozioni che gli permetta di vivere meglio le relazioni con gli altri esseri umani.

In un momento storico com’è il nostro, dominato da crisi ed incertezze, è indispensabile recuperare quel senso di civiltà che ci permetta di rapportarci agli altri con sentimenti di attenzione e di premura che ormai sembriamo avere messo da parte, come oggetti dimenticati.

A tal proposito ci è utile il suggerimento di Daniel Goleman, che nel suo recente libro, ci spiega che cosa significhi sviluppare l’intelligenza emotiva237; riprendendo le riflessioni di Aristotele espresse nell’Etica Nicomachea, l’autore insiste sull’opportunità di portare l’intelligenza dentro le nostre emozioni, definendola per questo intelligenza emotiva, per aiutarci a controllarle e a dosarle nei momenti in cui ci troviamo a vivere situazioni particolarmente difficili che, se non affrontate con saggezza, potrebbero minare la nostra stabilità.

Quindi, occorre un calibrato dosaggio delle emozioni per affrontare serenamente la vita sociale, perché è proprio attraverso di esse che noi entriamo in contatto con gli altri esseri umani, comunicando la parte più intima di noi stessi, che spesso non riusciamo a mostrare se non per mezzo dei nostri sentimenti.

Il meccanismo di empatia realizzato dal teatro diventa pertanto un aiuto fondamentale per l’individuo affinché sbloccando le sue emozioni, riesca poi però ad indirizzarle e ad incanalarle in modo corretto verso gli obiettivi che vuole realizzare.

Si tratta di poter scorgere l’utilità di questo metodo in ogni ambito della vita umana che ci pone in relazione agli altri; in particolare, continua Goleman, possiamo applicarlo nella realtà lavorativa, dove troppo spesso le emozioni incontrollate generano situazioni critiche238.

Infatti, come suggerisce l’autore, è importante applicare l’intelligenza emotiva anche nella vita lavorativa, contribuendo a creare quello che lui chiama <<buon senso aziendale>>, ovvero aiutare le persone a lavorare bene ed in modo armonioso in gruppo, realizzando una serie di aspettative condivise, supportate da una comunicazione autentica che passi attraverso delle emozioni vere e sapientemente calibrate; dall’altro stimolare la dirigenza a gestire i rapporti con il proprio personale impostati prevalentemente sull’ascolto e sulla capacità di decifrare i messaggi talvolta impliciti che si nascondono dietro le emozioni che loro comunicano.

Proprio la caratteristica del teatro di essere allo stesso tempo il luogo dove la finzione ed il gioco acquistano veridicità dal momento che sono in grado di creare un flusso di emozioni sia da parte di chi interpreta la rappresentazione, sia per chi vi assiste, hanno indotto negli ultimi trent’anni parecchi studiosi di psicanalisi e anche alcuni teorici del teatro, ad utilizzare le pratiche del teatro per fare terapia, vedendo <<[…] nel fare teatrale, non un fare qualsiasi, ma un fare espressivo, un agire la comunicazione in un setting diverso da quello della situazione duale che propone la tradizionale psicoanalisi>>239.

è utile a questo punto ripercorrere a grandi linee i più significativi contributi che hanno condotto il teatro dentro i luoghi del disagio e hanno posto alle pratiche terapeutiche la questione relativa all’utilizzo della teatralità come risorsa per l’intervento, tenendo ben presente che non essendo il mio uno studio specifico solo sulla teatro-terapia, sono stata costretta ad operare delle scelte arbitrarie, rispetto al vasto materiale disponibile, che mi permettessero comunque di mettere in evidenza alcuni nodi tematici a mio avviso esemplari240.

Il punto di partenza di questo discorso è rappresentato dall’intuizione freudiana, espressa nella descrizione del “gioco del rocchetto” in Al di là del principio di piacere241, dove egli vede nell’esperienza della perdita la nascita dei processi di rappresentazione, interrogandosi così sul significato che il gioco ricopre nell’orizzonte simbolico dell’uomo.

Infatti, dallo studio condotto da Freud sull’influenza del gioco sull’attività simbolica del bambino, emerge un’importante verità; in realtà, il bambino, attraverso le dinamiche tipiche del gioco, passerebbe dalla posizione passiva assunta inizialmente nei confronti di una situazione nuova e inaspettata, a quella attiva, conseguente al continuo ripetersi di un’esperienza, che pur sgradevole, con il passare del tempo iniziava da lui ad essere accettata ed in qualche modo interiorizzata, ancora prima della nascita dell’attività simbolica e del linguaggio. Pertanto, analizzando la sua esperienza ludica ci si troverebbe di fronte ad un differente modo dell’agire comunicativo: nel rapporto con la madre il bambino passerebbe dalle funzioni biologiche a quelle relazionali.

Come fa notare Sisto Dalla Palma, <<[…] tale esperienza è possibile perché il gioco è innanzitutto un’azione mimetica che vive nelle membra di chi la agisce. Il corpo del bambino è la mediazione tra il significato e il significante, tra il desiderio e l’impossibilità di realizzarlo. è il luogo in cui si organizza la rappresentazione della mancanza e si realizza il meccanismo di risposta che la rende sopportabile. Il teatro consacra il processo di evocazione di un’assenza e di elaborazione attraverso lo spostamento della meta del desiderio. La scena teatrale diviene il luogo della maschera che nasconde e nel contempo offre la possibilità di svelare ciò che cela. è il luogo della ripetizione e del ritrovamento del significato originario. Si propone come modello riparativo ed esperienza della ri-creazione. Essa è anche soprattutto il luogo dell’incarnazione, intendendo con tale termine richiamare la centralità del vissuto corporeo nel processo rappresentazionale>>242.

Ma nonostante tali riflessioni mettano in primo piano l’importanza del corpo in azione come luogo dello scacco e del riscatto, questa fondamentale evidenza rimane del tutto marginale nell’impianto terapeutico freudiano, il quale si fonda sulla parola e sulla relazione duale tra medico e paziente.

A raccogliere in parte l’eredità del maestro, dando maggior attenzione alla scena del corpo, è uno dei suoi allievi: Sandor Ferenczi243.

Il nodo centrale della sua riflessione ruota intorno al concetto di “rappresentazione drammatica”; infatti, secondo l’autore, quando il mondo esterno rivela la non possibilità o la non volontà che i desideri trovino immediata soddisfazione, gli investimenti allucinatori operati dal senso di onnipotenza non sono più sufficienti al bambino che attraverso la “rappresentazione drammatica” quale stadio evoluto del linguaggio gestuale, mira al soddisfacimento dei bisogni, che nel loro evolversi verso stadi di sempre maggiore complessità portano al linguaggio simbolico e alla rappresentazione cosciente.

Per Ferenczi sia il linguaggio verbale sia quello gestuale si fondano sull’originaria perdita del ventre materno, lo spazio e il tempo in cui un bisogno veniva soddisfatto senza che venisse desiderato o richiesto; si fondano quindi su una mancanza che diviene invocazione verso un Altro. Il gesto e la parola hanno una comune origine che si fonda sulla reciprocità fra attività motoria e desiderio nella ripetizione e che giustifica l’uso dell’azione nelle terapie analitiche, senza che questo comporti necessariamente una forma di liberazione catartica.

Sempre nell’ambito di un riconoscimento delle valenze diagnostiche e degli effetti dell’agire del paziente, è di capitale importanza anche l’opera di Melanie Klein, costretta a ricorrere a strumenti non verbali per interpretare e risolvere i traumi dei bambini244.

Secondo la Klein, il bambino costruisce la propria identità psichica attraverso l’assimilazione di attributi e qualità di “oggetti esterni” e attraverso il rigetto verso l’esterno di ciò che rifiuta. In una complessa organizzazione psichica fondata sui processi di identificazione introiettiva e di identificazione proiettiva245, in cui il campo da gioco è la scena di una rappresentazione dei conflitti fra le parti, l’adulto può non solo ricavare informazioni dal fare del bambino-attore, ma può strutturare il proprio intervento in termini teatrali.

Grazie all’attribuzione di ruoli, sia a cose sia a persone, i meccanismi introiettivi e proiettivi dell’identificazione vengono scardinati e possono essere sperimentati secondo nuove modalità che potrebbero mutarne gli esiti; proprio il fatto che la scomposizione delle identificazioni agisca in un conflitto la cui proiezione è volta all’esterno, diminuisce la tensione interna e permette che le molteplici soluzioni possibili possano essere verificate concretamente.

La centralità della relazione è ulteriormente ribadita nel lavoro di Donald Winnicott, con l’introduzione del concetto di “area transizionale”. Come l’autore precisa, essa si struttura mediante <<l’oggetto transizionale>>, che si configura come l’elemento di transizione che struttura l’esperienza dell’illusione, che non appartiene solo alla primissima infanzia, ma che in modi e forme diverse ritornerà nel corso della vita246. Pertanto, possiamo considerare l’area transizionale come quello spazio in cui si gioca la relazione, ossia come il medium attraverso il quale sono possibili i passaggi dal soggetto all’oggetto, dall’interno all’esterno, dal fantastico al reale.

Winnicott infine propone un’ipotesi terapeutica che utilizzi un setting che ripristini l’esperienza transizionale, come se essa rappresentasse quella zona franca e neutra dove ha luogo la relazione giocata.

Dal quadro fin qui elaborato sono emersi interessanti spunti di riflessione intorno al problema dell’uso in terapia del fare, del metodo attivo, del gioco, della relazione. Ma gli autori sopra citati si muovevano ancora nel rapporto duale tra paziente e analista, anche se, rispetto ai metodi tradizionali, viene data particolare enfasi al materiale che i soggetti in cura costruiscono mediante azioni e rappresentazioni che li vedono essere protagonisti in prima persona.

Chi invece si è dichiarato in netta opposizione nei confronti dell’impianto psicoanalitico, scardinando completamente i presupposti teorico-metodologici dell’elaborazione freudiana è stato Jacob Levi Moreno247.

Attraverso la pratica della “spontaneità” tipica del suo modo di fare teatro, Moreno individuò un possibile valore terapeutico dell’esperienza dell’improvvisazione teatrale; lo psicodramma moreniano, denominato “classico” per distinguerlo dai modelli che si sono poi ispirati al suo, è una tecnica psicoterapeutica che si allontana da qualsiasi formulazione di stampo psicanalitico per il rifiuto totale dell’esistenza della divisione fra conscio, preconscio e inconscio. Moreno ribadisce l’unità dell’individuo e agisce sul suo comportamento, sull’azione drammatizzata nel “qui e ora” del gruppo. Essere se stessi è l’unica regola che governa il patto tra il conduttore e i partecipanti. Ciascuno è chiamato a esteriorizzare e condividere il proprio vissuto attraverso la rappresentazione di scene via via più significative, siano esse fantastiche o reali. Gli elementi di una seduta sono la scena, il protagonista, il conduttore, gli io ausiliari e l’uditorio; dopo una prima fase di riscaldamento, emerge la storia di un singolo, di volta in volta diverso, che grazie alla guida del terapeuta ri-vive per la seconda volta una porzione di vissuto, aiutato, per le parti funzionali alla rappresentazione, dagli altri membri del gruppo che a seconda delle necessità lasciano la posizione di spettatori. In fase finale il gruppo è chiamato a condividere l’accaduto, attraverso il sentire del conduttore che guida la seduta per mezzo di tecniche differenti, non per interpretarlo però, ma solo per esprimere il raggiungimento della catarsi delle emozioni. Presupposti di tale lavoro sono la spontaneità e il tele, la corrente affettiva a due sensi che governa le relazioni248.

Nonostante si debba riconoscere a Moreno il grande merito di aver aperto la strada, di aver intuito, con molto anticipo sui tempi, i nodi cruciali che ancora oggi sono al centro del dibattito e della riflessione intorno alle tematiche della teatro-terapia, il suo metodo però viene spesso accusato di aver lasciato aperto molte aporie, soprattutto per quanto riguarda i temi del corpo, del testo, del personaggio e della conduzione: a non convincere gli studiosi di tali materia sono i rapporti fra regia, drammaturgia e attori, o meglio fra conduttore, testo e partecipanti.

In particolare, in campo analitico, chi ha riconosciuto il potenziale del dispositivo teatrale all’interno del setting terapeutico ha messo in evidenza i limiti dello psicodramma classico derivanti dall’esclusione totale di qualsiasi cognizione di stampo psicoanalitico o psicodinamico. In questo settore c’è stata quindi l’accettazione della tecnica moreniana e il rifiuto della sua teoria psicodrammatica.

La scuola psicoanalitica, nata sul finire degli anni quaranta, pur non rinnegando la paternità di Moreno, ha sviluppato modelli differenti sulla base delle matrici psicoanalitiche di riferimento. I primi esponenti dello psicodramma analitico sono stati i francesi: Lebovici, Anzieu, Lemoine, Basquin e Bour249.

L’obiezione principale degli analisti ruota intorno al problema dell’inconscio. Il metodo catartico di Moreno non convince affatto poiché non porta ad alcuna significativa trasformazione delle strutture psichiche. I concetti chiave dello psicodramma analitico sono i meccanismi di identificazione per i partecipanti e di transfert per i conduttori, mentre alla rappresentazione viene applicata la tecnica dell’interpretazione. L’importante differenza delle due scuole consiste nel fatto che per gli psicanalisti francesi è necessario che si ingaggino giochi di identificazione all’interno dei quali possano innestarsi le dinamiche transferali perché l’immaginario rappresentato possa essere sottoposto a interpretazione. Il contatto fisico è proibito.

Sulla scia del modello francese, in contrapposizione all’impianto concettuale di Moreno, si sono sviluppati diversi modelli teorici - freudiano, adleriano, reichiano, junghiano, lacaniano – diffusi in diverse aree geografiche, ma in particolare in Francia, Germania, Inghilterra, Stati Uniti e Argentina250.

Particolarmente interessanti sono le riflessioni condotte dai coniugi Lemoine, di scuola lacaniana, soprattutto perché aprono un varco sulle questioni relative alla nascita dei processi simbolici e alla necessità della relazione. Lo psicodramma si configura per loro come una sorta di incontro mancato che prende vita sulla scena ad opera del soggetto, spinto a rivivere qualcosa che già una volta è stato motivo di fallimento; tale ripetizione è molto più importante del piacere che egli ne può ricavare fino a divenire una necessità e il gioco è determinato da una coazione a ripetere che allontana l’uomo dal piacere e lo avvicina piuttosto al dolore.

Ma a differenza della scena originaria, la positività del processo psicodrammatico si gioca sul fatto di dover avvenire di fronte ad altri, di fronte ad un gruppo. Lo sguardo dell’altro nella dinamica rappresentazionale è il principale punto di riferimento per il soggetto che nella relazione percepisce se stesso dal punto di vista dell’altro come corpo. Ed è proprio lo sguardo che trasforma la ripetizione in rappresentazione. Il discorso del soggetto viene sezionato nei suoi particolari più significativi che cominciano a circolare nel gruppo. Sotto lo sguardo degli altri il soggetto tenta di ricomporre il suo corpo spezzettato dandogli una nuova unità attraverso il ruolo.

Quindi, la differenza principale tra lo psicodramma e la psicanalisi si fonda sulla categoria dello sguardo, messo in evidenza mediante la pratica del lavoro di gruppo; ma nonostante la sua fondamentale innovazione rispetto allo psicodramma faccia intravedere le possibili riflessioni relative alla funzione dello sguardo dell’Altro sulla dimensione corporea, poi però finisce per negare di fatto la corporeità stessa251.

Invece chi ha fatto della corporeità l’elemento essenziale per proporre una pratica rivoluzionaria che potesse essere indirizzata anche alla terapia, è stata la stessa comunicazione teatrale, grazie alla testimonianza di tre grandi esperienze profondamente diverse fra loro: il Living Theatre di Julian Beck e Judith Malina, il Teatro povero di Grotowski e il lavoro teatrale Marat-Sade di Peter Brook.

Per capire meglio i propositi perseguiti dal Linving Theatre, ci sono particolarmente utili le riflessioni di De Marinis:<<[…] secondo i Beck, Artaud coglie qui la funzione fondamentale della scena (additando così, nello stesso tempo, la soluzione del problema spettatore): distruggere la violenza mediante la sua rappresentazione, ovvero, detto altrimenti, esorcizzare la violenza per mezzo della violenza teatrale>>252.

Riprendendo i contenuti del testo di Artaud, Il teatro e il suo doppio, il Living tradusse l’idea in esso contenuta in un impegno che era sia artistico che sociale e politico; il teatro poteva così intervenire sulla realtà grazie alla sua forza e alla sua potenza evocatrice.

Un tale modo di fare teatro, che è stato definito come il teatro dell’Intelletto e della Crudeltà, della Forma e della Sommossa, del Caso e dell’Intenzione, è essenzialmente costituito dall’inscindibile unione di pensiero e carne, parola e corpo, fantasia e realtà ma soprattutto è rappresentato dal desiderio continuo dei componenti del gruppo di nutrirsi, per “fare teatro”, soprattutto nei periodi di allestimento dello spettacolo, dell’esperienza totale e radicale, in grado di coinvolgere tutte le parti dell’essere253.

L’obiettivo di Grotowski254era invece quello di realizzare un teatro inteso non come palestra ma come spazio che permettesse all’attore, al centro del suo modo di concepire il lavoro teatrale, attraverso un percorso di autopenetrazione fondato sulla disciplina e l’offerta del sé, di ottenere uno stato di coscienza e consapevolezza rispetto al proprio limite; il regista a tal proposito parlava di “atto totale”, definendolo così:<<[Alludo] alla più intima essenza del mestiere di un attore, una reazione che gli consenta di svelare uno dopo l’altro i diversi strati della sua personalità, partendo dalla fonte biologica istintiva, attraverso il canale della consapevolezza e del pensiero, fino a quel vertice, così difficile da definire, dove tutto si fonde in un’unità. Questo atto di rivelazione totale del proprio essere diventa un dono dell’individuo che confina con la trasgressione di ogni barriera e con l’amore. Io definisco questo un atto totale>>255.

Una terza tappa esemplare all’interno del nostro campo di indagine è rappresentata dallo spettacolo Marat-Sade di Peter Weiss, messo in scena nel 1964 da Peter Brook.

Come fa notare il De Marinis:<<[…] il testo di Weiss era dunque un’occasione per tentare una prima realizzazione di quel teatro immediato verso cui muove ormai, decisamente, la ricerca di Brook […], cioè un “teatro totale”, che sia, nello stesso tempo, teatro di disturbo e di choc (come ieri quello di Artaud e, oggi, quello di Beckett, del Living o dell’happening) ma anche di affermazione (come quello di Brecht), insomma un teatro che coniughi gli opposti [...] in una forma di espressione il più possibile partecipe della globalità della vita stessa>>256.

Quindi possiamo riconoscere che lo spettacolo di Brook, dominato dalla suggestione e dalla tensione scatenata dai temi, pervaso da una forte dose di violenza nelle immagini, nel linguaggio e nelle situazioni rappresentate, ha sicuramente segnato un punto di riferimento per numerosi operatori che si sono mossi nell’area della psichiatria.

In ogni caso dobbiamo constatare che il dato che sembra ricorrere nelle esperienze del teatro degli anni Sessanta e di cui qui sono state riportate solo alcune testimonianze significative, è quello di una ricerca che conduca ad un’esperienza in grado di coniugare ogni aspetto dell’esistenza umana, ponendosi allo stesso tempo come punto di rottura e di cambiamento.

Stiamo parlando di un tipo di teatro che comincia ad entrare nei luoghi dell’emarginazione, non solo come spettacolo, ma soprattutto come pratica diretta, al fine di trasformare l’evento teatrale in esperienza esistenziale, là dove sono venuti a mancare i dispositivi relazionali che riconoscono all’uomo la propria dimensione umana.

Ma superate le sperimentazioni degli anni Sessanta, dopo gli entusiasmi degli anni Settanta e dopo i tentativi di sistematizzazione teorica degli anni Ottanta, si verifica oggi uno stato di fermento intellettuale intorno alle tematiche scottanti delle terapie a matrice creativo-espressiva. Il dato nuovo e rilevante, è che questo movimento non cerca più lo scontro con l’istituzione, ma piuttosto il dialogo al fine di trovare una via di cooperazione, senza per questo obbligare il teatro all’omologazione.

Compiendo una rapida ricognizione all’interno di esperienze condotte in area europea e angloamericana257, dove lo sviluppo della teatro-terapia ha avuto molto più successo che in Italia e dove sono sorte delle vere e proprie scuole di formazione a livello universitario che fanno capo a centri di ricerca organizzati anche sul piano delle pratiche e dell’inserimento professionale degli operatori, possiamo evidenziare quattro differenti modelli di applicazione.

-Un primo esempio di questo modo di fare teatro-terapia è rappresentato dalla drammatizzazione terapeutica; essa utilizza le storie di vita dei pazienti come anche i miti, le leggende, le fiabe popolari e la letteratura. Secondo un approccio di tipo narrativo, il terapeuta concentra la sua attenzione soprattutto sulle modalità del racconto, non tanto sui contenuti.

Uno dei principali rappresentanti del modello, Mooli Lahad, sottolinea la valenza diagnostica della storia riportata ai fini di una sistematica individuazione delle possibilità reali del paziente di far fronte ai problemi quotidiani. Compito del terapeuta è svelare le potenzialità perché possano essere utilizzate in modo positivo e costruttivo; attraverso l’uso della tecnica di storymaking ciascuno può giungere a progettare una propria storia basandosi su quegli elementi che sono emersi nel racconto di miti e leggende. Solitamente è il terapeuta a fornire uno schema narrativo con funzione di griglia.

Se Lahad prevede nelle sue sedute un personaggio principale, che ha una missione o un obiettivo da raggiungere, un aiutante, una difficoltà da superare, le strategie per affrontarlo e una soluzione, invece Gersiew, altro esponente della dramma-terapia, propone nelle sue sedute uno spazio ameno, un personaggio principale, un ostacolo, un portatore d’aiuto e una risoluzione.

Secondo l’ottica psicodinamica sono utilissimi i testi letterari classici e la storia diviene una tecnica proiettiva o metaforica per i membri del gruppo che possono esplorare il proprio mondo fantastico258.

Un secondo modello di intervento è basato sulla teoria dei ruoli, che vede l’individuo come un attore che assume molteplici ruoli di tipo biologico, familiare, professionale e sociale nella vita quotidiana. Lo scopo terapeutico è quello di aiutare il paziente a incrementare il numero di ruoli e di copioni posseduti rendendo flessibile il passaggio dall’uno all’altro ed evitando che avvengano meccanismi di stereotipizzazione o fissazione. L’accento è posto sulle parti sane del soggetto ed il successo è raggiunto nel momento in cui l’individuo riconosce l’esistenza ed il significato di una risorsa scoperta nell’assunzione di un ruolo inconsueto. I testi principali sono quelli di Moreno e di Goffman, il riferimento tecnico è alle pratiche dei giochi di relazione e di ruolo che hanno trovato ampio sviluppo soprattutto negli Stati Uniti all’interno dei moduli di formazione.

Un esponente importante di questo modello è lo statunitense Robert Landy, che applica le tecniche di dramatherapy nei gruppi, utilizzandole in relazione al lavoro sul personaggio nella costruzione di una drammaturgia collettiva259.

Per quanto riguarda la realtà italiana, su esempio dell’esperienza statunitense, nell’ultimo decennio è cresciuta notevolmente l’applicazione delle tecniche dei giochi di ruoli nel campo della formazione aziendale e professionale. Visto l’importanza di questo tema ai fini del mio studio, ne parlerò più dettagliatamente nel corso di questo paragrafo, quando la illustrerò come una delle diverse modalità di utilizzo dello strumento teatrale nella realtà aziendale.

       Un terzo modello di teatro-terapia è rappresentato dall’approccio antropologico; a partire dall’influenza dell’opera di Grotowski, è stata postulata la terapeuticità intrinseca dell’agire teatrale in virtù delle prerogative di autopenetrazione dell’attore grotowskiano. In questo modo di fare teatro-terapia è molto importante la figura del terapeuta che viene ad essere una sorta di sciamano in grado di liberare, attraverso il rito, il sé dell’attore. Questa esperienza, che risente molto delle pratiche religiose delle popolazioni indiane, africane e dei nativi d’America, è basata sulla messa in atto di rappresentazioni e teatralizzazioni, attuate attraverso l’inversione dei ruoli, al fine di ottenere un rituale di purificazione.

Le critiche a questo modo di operare sono numerose, soprattutto perché esso sembra dimenticare la centralità dell’azione di rappresentazione dei propri vissuti, ma esso si difende dicendo che l’intervento diretto del terapeuta viene sentito come intrusivo e invasivo, perciò egli spesso è costretto a recitare la parte dei suoi pazienti per ottenere dei risultati.

Uno dei principali esponenti di questa corrente è Paul Rebillot di San Francisco260.

        Un ultimo modo di fare teatro-terapia, non per questo meno importante, è rappresentato dai modelli a matrice teatrale che si fondano direttamente sul sapere teatrale che eredita le riflessioni di registi, attori e drammaturghi della seconda metà del secolo. Stanislavskij, Grotowski, Barba e le avanguardie storiche rappresentano i principali punti di riferimento che, in base alle differenze dei metodi elaborati sul lavoro dell’attore, hanno diversamente influenzato le pratiche terapeutiche. Tra i modelli di matrice teatrale si possono distinguere tre differenti scuole: creativo-espressiva, task-centered e psicoterapeutica. La prima prende le mosse dalle esperienze di animazione teatrale e si pone quale obiettivo principale il raggiungimento di un risultato spettacolare; l’arte è considerata terapeutica in sé e la creatività ne è il principale strumento. La seconda è più legata alle teorie comportamentiste americane, mirate alla soluzione dei problemi attraverso modificazioni dell’atteggiamento. Si compone di esercizi di relazione e si struttura, più che sulla rappresentazione, sulla simulazione di ruoli possibili. La terza invece pone al centro dell’intervento il processo evolutivo del gruppo e dei singoli, prendendo le mosse dalle elaborazioni teoriche della psicoanalisi e della psicodinamica.

Le diverse scuole sembrano tutte accomunate però dall’idea di utilizzare il potere trasformativo del gioco per permettere che attraverso il “come se” della rappresentazione, si realizzi un cambiamento concreto e reale all’interno del soggetto che vi partecipa; già Victor Turner aveva riconosciuto che:<<[…] può accadere che un modello leggero, nato per gioco, di vita o strutturazione sociale, giudicato un tempo stravagante, in condizioni di estremo cambiamento sociale si riveli un adattabile schema di vita al “modo indicativo”>>261.

Infatti crediamo che la potenza insita nello strumento teatrale consista nella possibilità data all’attore e al pubblico di percorrere una strada liberi dall’incidenza che le azioni e i sentimenti possono avere sul reale del quotidiano, ma disponibili a lasciarsi mutare nella coscienza da quelle stesse azioni e quegli stessi sentimenti; bisogna assolutamente ricordare, come è emerso dall’analisi appena condotta, che tra gioco e teatro vi è un legame inscindibile, tale da permettere a quest’ultimo di poter essere utilizzato come strumento di risoluzione di problemi e conflitti, permettendo all’individuo di non sentirsi gravato dall’esito di ciò che sta facendo, in quanto fin dall’inizio egli è consapevole di aver preso parte ad un’esperienza ludica ma non per questo di ininfluente esito262.

La componente del gioco però rappresenta una sola delle due caratteristiche che ho ritenuto essere distintive della modalità teatrale in funzione di una sua possibile applicazione nella realtà aziendale; tuttavia un altro aspetto molto importante non va sottovalutato quando si viene a contatto con le pratiche teatrali: sto parlando della funzione della gestualità.

Come è emerso dalla precedente analisi, sono soprattutto le esperienze teatrali a noi contemporanee, a partire dagli anni Sessanta e Settanta fino ad arrivare ai tentativi dei gruppi sperimentali d’avanguardia dei giorni nostri, a puntare maggiormente l’attenzione sull’espressività dell’attore che si realizza mediante un complesso lavoro incentrato sulla corporeità e sulla gestualità.

L’intento comune di questi lavori è stato quello di ribadire la peculiarità del teatro, per troppo tempo trascurata all’interno della nostra tradizione occidentale che l’ha sempre identificata con il testo drammatico, quella cioè di essere <<[…] il luogo privilegiato del corpo, dove appunto il corpo dell’attore in carne ed ossa agisce in uno spazio di contiguità fisica con lo spazio dello spettatore e in un tempo per entrambi sincronico>>263.

Infatti, se crediamo nella capacità comunicativa dello strumento teatrale, non possiamo dimenticare che la gestualità ha un potere molto più forte della parola, perché riesce ad esprimere, ad esempio solo attraverso un gesto o un movimento, sentimenti o pensieri che appartengono alla parte più profonda di un individuo e che spesso egli nasconde per incapacità o per vergogna di esprimerli a parole.

Questa è un’evidente verità che possiamo riscontrare nella vita di tutti i giorni; ognuno di noi si è trovato spesso in situazioni in cui o non è riuscito ad esprimere quello che sentiva dentro e quindi è ricorso ai comportamenti gestuali, o si è trovato dalla parte di chi ha dovuto interpretare i gesti che un altro individuo gli ha mostrato.

Proprio la comunicazione gestuale ed il suo particolare modo di esprimersi hanno interessato non solo i teorici del teatro ma anche gli studiosi di altre discipline, entrambi desiderosi di comprendere le modalità e le finalità attraverso le quali essa si sviluppa.

Per quanto riguarda la nostra concezione della corporeità e della gestualità in ambito teatrale, dobbiamo subito riconoscere l’importanza che il contributo del pensiero fenomenologico ha segnato in questo campo.

L’assunto da cui partire è rappresentato dal lavoro di Virgilio Melchiorre264, in cui il comportamento gestuale è considerato in un nesso strutturale con quello conoscitivo; secondo l’autore il corpo è radice di ogni prospettiva, “mediazione” di conoscenza e quindi non impaccio, cioè, e condizione da trascendere, ma <<figura originaria>>, che rende possibile la conoscenza, se è vero che questa passa con uguale dignità attraverso le “intenzioni”, quelle più propriamente rappresentative a cui la tradizione ha riconosciuto in modo esclusivo la prerogativa di atti conoscitivi e di unica costituzione del significato, e quelle del sentimento, della gioia, dell’angoscia, del timore. Del desiderio, del dubbio, della tensione religiosa, del giudizio […] a cui la speculazione fenomenologica ha rivendicato la dignità di una peculiare “apertura di conoscenza”, di una originale produzione di significati non riducibili a sfumature o ad attributi di precedenti predicati, e che si esprimono in tutto lo spettro degli atteggiamenti attraverso cui il corpo trascende la pura dimensione biologica, in tutta l’articolazione del suo linguaggio.

Se quindi il teatro in cui crediamo ha rivaluto il gesto del corpo, il quale è inteso come simbolo <<[…] al punto in cui si colloca nella duplicità del ricordo e della profezia, del regresso e del progresso, del solipsismo della produzione del desiderio e della fertilità comunicativa della cultura, che oppone alla tentazione del nulla e dell’assurdo la sfida dell’essere e del senso, alla cecità del piacere la trasparenza del logos>>265, per altre vie e campi di analisi non strettamente legati al teatro, è emersa comunque la valenza conoscitiva della gestualità.

In particolare mi voglio riferire a due contributi diversi fra loro, sia per matrici teoriche sia per la distanza temporale che li separa, ma che possono essere visti in un rapporto di relazione reciproca, poiché risultano entrambi utili a confermare quanto sto dicendo: sto parlando del lavoro di Watzlawick sul comportamento umano e di quello di Amietta-Magnani sulla conoscenza gestuale266.

Per quanto riguarda lo studio condotto da Watzlawick e collaboratori, la comunicazione rappresenta la conditio sine qua non della vita umana e dell’ordinamento sociale, ogni essere umano è coinvolto fin dall’inizio della sua esistenza in un complesso processo di acquisizione di regole della comunicazione, ma di tali regole e del loro funzionamento è consapevole solo in parte.

Secondo tali studiosi è molto interessante studiare gli effetti pragmatici (comportamentali) che la comunicazione ha sull’individuo, perché attraverso di essi si possono capire anche gli eventuali disturbi che egli nasconde, al fine di poterli guarire.

Infatti, l’individuo è inserito in una complessa rete di relazioni, che egli intrattiene con il sistema nel quale opera e che sono basate appunto sulla comunicazione; non esiste pertanto un non comunicare, perché dietro ad ogni comportamento è sempre nascosto un messaggio, un’informazione e quindi una comunicazione.

Bisognerà prestare particolare attenzione allo svolgersi dell’interazione, cioè lo scambio di messaggi fra i comunicanti, perché essa può avvenire in due modi diversi: o quello numerico, cioè attraverso le parole, o quello analogico, in cui hanno particolare valore i gesti, le espressioni del viso e via dicendo, tenendo ben presente che spesso la seconda modalità non è stata tenuta in giusta considerazione, perché la si considerava una comunicazione di tipo non verbale che per essere studiata andava interpretata sempre con categorie di riferimento tipicamente verbali.

Da questa critica parte il lavoro di Amietta-Magnani267; i due autori vogliono compiere una ricerca davvero stimolante, ossia si propongono di considerare la conoscenza come un insieme complesso fatto di intelligenza, creatività, immaginazione e quindi non come qualcosa dotato solo di razionalità, ma piuttosto legato anche alla pratica, al comportamento e alla gestualità.

A loro interessa studiare la gestualità da un punto di vista positivo, non come una conoscenza complementare a quella verbale, ma cercando di analizzarla come l’espressione di operazioni e categorie mentali in chiave pre-linguistica. Il loro studio è partito dalla comunicazione gestuale per poi risalire alle operazioni mentali che vi stavano dietro.

La caratteristica fondamentale di questa comunicazione, di essere cioè analogica e diacronica, ha messo in luce la potenza insita nel gesto la cui peculiarità sta nell’essere assolutamente volontario; per poter rappresentare quindi una delle esperienze più significative della vita mentale, così pensano gli autori rifacendosi per questo ai contributi teorici della metodologia operativa, esso deve essere generato da una operazione mentale268.

Il lavoro di questi due autori è particolarmente utile, oltre che per ribadire l’importanza della comunicazione gestuale come forma di conoscenza, anche per vedere le possibili relazioni che esistono fra di essa ed il nostro studio teatrale; a tal proposito mi sembra doveroso sottolineare lo sforzo compiuto dagli studiosi per indagare, da un lato i rapporti fra gioco e lavoro, dall’altro per approfondire l’atteggiamento tipico della rappresentazione teatrale, meglio definito “animus teatrandi”.

Per quanto riguarda la suggestiva relazione tra gioco e lavoro, Amietta e Magnani tengono subito a precisare che non esistono situazioni di lavoro o di gioco precostituite e giudicate uguali per tutti e in tutte le circostanze, ma piuttosto essi sono due ambiti mentali che dipendono dalle condizioni generali da cui vengono guardati; siamo noi che attribuiamo la qualità di lavoro o di gioco, quali due nostre possibili alternative di libertà mentale, a qualsiasi attività mentale che possiamo intraprendere, nessuna esclusa.

Infatti, <<[…] ogni volta che noi svolgiamo non importa quale attività entriamo in uno di questi atteggiamenti ed il risultato non può essere che, rispettivamente, di “gioco” o di “lavoro” indipendentemente dalla natura dell’attività. La quale potrebbe essere addirittura identica nei due casi>>269.

Per quanto riguarda invece l’atteggiamento tipico della rappresentazione teatrale, esso ci serve per capire meglio la gestualità che sta dietro a tale finzione; lo scopo degli autori è dimostrare come la finzione che si cela dietro la recitazione teatrale, sia profondamente diversa dalla menzogna.

Infatti quando una persona mente, la gestualità che lo accompagna evidenza uno stato di disagio, perché nel mentire il soggetto è obbligato a operare una scissione tra il sé (che aderisce al pensiero taciuto) e il comportamento che si manifesta pubblicamente; il suo mentire è fatto per ingannare gli altri e la frattura che si verifica tra il soggetto ed il suo comportamento rende faticosa la falsificazione e la grava della necessità di un attento autocontrollo che, <<[…] mentre produce ciò che voglio sembrare, nega e umilia ciò che sono>>270.

Ben diverso è l’atteggiamento che è sotteso alla finzione; infatti fingere non obbliga alla doppiezza, per fingere si abbandona una realtà, uno stato dell’io per calarsi in un’altra e diversa realtà, stato dell’io, al quale si dà vita con il proprio corpo e la propria voce. Poiché fingendo lascio momentaneamente la mia individualità, per abbracciarne un’altra, che comunque faccio mia e alla quale totalmente aderisco, (anche se per poco), non provo sensazione di disagio o doppiezza, quanto piuttosto fatica, nel caso che la parte che mi sono proposta sia troppo distante dalla mia realtà umana. Nella recitazione, in particolare il soggetto portante è messo fra parentesi, mentre il ruolo viene assunto dall’altro; il primo soggetto resta in disparte, anche in veste di controllore-supervisore (almeno nell’attore professionale), mentre l’altro, come si suole dire con un’espressione efficace, “entra nei panni del personaggio”; nella recitazione assistiamo ad un unico pensiero con due soggetti, di cui l’attenzione è rivolta al personaggio: per questo si può dire che la recitazione è l’opposto della menzogna271.

Queste riflessioni ci possono essere molto utili per spiegare anche i comportamenti degli individui in azienda, poiché la vita organizzativa è costituita da soggetti impegnati a rappresentare dei ruoli e quindi conoscerne in anticipo le dinamiche comportamentali, è indispensabile per gestire problemi e conflitti che possono nascere dalle interazioni di essi.

Pertanto, come illustrerò nel paragrafo a seguire, una delle possibili modalità di intervento teatrale in azienda è rappresentata dall’ambito della formazione, la quale per altro si serve di dinamiche di interazione costituite dai role playing, la cui efficacia risiede nella teoria ludica dei ruoli.

 

3.2: Le possibili metodiche di intervento teatrale in azienda.

 

L’ampia parentesi teorica fin qui affrontata è stata indispensabile per fornire al mio lavoro un quadro teorico e fondativo di riferimento. Diventa adesso importante specificare quali modalità di intervento teatrale possono essere applicate alla realtà aziendale, compatibilmente ai bisogni e alle strutture di quest’ultima.

A tal proposito possiamo dividere i diversi tipi di intervento in:

1) il teatro come drammaturgia dello spettacolo, che va a segnare i momenti clou dell’azienda;

2) l’utilizzo delle tecniche espressive e teatrali solitamente impiegate nella preparazione attorale e qui invece usate per aiutare manager e dirigenti a ricoprire al meglio il proprio ruolo;

3) la formazione aziendale, supportata da metodologie teatrali;

4) la drammaturgia scritta e ideata appositamente per l’azienda.

Nei paragrafi successivi cercherò di spiegare come si articolano e in che cosa consistano le diverse modalità di intervento teatrale.

 

3.2.1: Il teatro come drammaturgia dello spettacolo.

 

Per quanto riguarda il primo modo di intervenire nell’organizzazione, dobbiamo subito precisare che esso si basa sulla valenza creativo-espressiva tipica del teatro; attraverso la messa in scena di uno spettacolo teatrale, solitamente inserito all’interno delle feste aziendali (quali possono essere ad esempio la festa di Natale, le Convention o il family day) si vuole raggiungere un risultato spettacolare perché si crede nella valenza terapeutica dell’arte in se stessa e nello strumento creativo quale miglior mezzo di riuscita di tale obiettivo.

Quasi sempre è l’azienda ad incaricare la compagnia teatrale di scegliere e rappresentare uno spettacolo secondo le modalità che ritiene più opportune, avendole però commissionato in precedenza, durante il cosiddetto brief, gli obiettivi che essa voleva realizzare attraverso tale messa in scena.

In realtà, questa libertà di espressione concessa agli organizzatori teatrali è giustificata dal fatto che lo spettacolo va ad inserirsi all’interno di un particolare rito aziendale, che è già strutturato secondo regole teatrali ben precise e risponde a determinati bisogni esclusivamente aziendali272.

 

3.2.2: Public speaking.

 

Per quanto riguarda invece il secondo metodo di intervento, bisogna subito rilevare che esso è molto richiesto in azienda, soprattutto da parte di manager e dirigenti. Infatti, spesso, questi individui lamentano la capacità di saper parlare correttamente e di riuscire a muoversi in modo opportuno di fronte ad un pubblico che si trova lì per ascoltarli. In questo caso le tecniche espressive teatrali, tra cui ricordiamo l’importanza fondamentale della dizione ma anche quella della gestualità, dimostrano tutta la loro efficacia per aiutare a risolvere questi tipi di problemi; anche in questo caso è l’azienda, o addirittura i singoli individui che necessitano di questo intervento. Sono proprio manager e dirigenti, a rivolgersi ad attori professionisti o a compagnie teatrali e a chiedere attraverso un ciclo di lezioni pratiche, (che possono avvenire sia all’interno dell’organizzazione sia all’esterno, cioè in sedi specifiche dove lavorano i professionisti, a seconda delle disponibilità dei committenti), di poter colmare le loro lacune, imparando delle tecniche di cui poi sapranno disporre per tutta la vita.

Nel paragrafo relativo alle esperienze italiane parlerò più dettagliatamente di questo tipo di intervento teatrale, basandomi su tre differenti testimonianze di persone che operano in questo campo e cercando di mettere in evidenza il metodo da loro usato nell’insegnare le tecniche del parlare in pubblico273.

 

3.2.3: Formazione aziendale: role playing e autobiografia.

 

Per quanto concerne l’ambito della formazione aziendale, bisogna subito riconoscere che questo è un settore molto sviluppato e ricercato dalle imprese, le quali tendono oggi ad investire molto sulla formazione dei propri dipendenti, sia attraverso stage tenuti al di fuori dell’azienda stessa, sia soprattutto con corsi di preparazione umana e professionale realizzati a suo interno274.

La mutata situazione economica, causata dalla globalizzazione e mondializzazione dei mercati, ha costretto le aziende a doversi circondare di collaboratori, oltre che capaci professionalmente, soprattutto in grado di sfruttare le proprie doti individuali e creative per affrontare compiti sempre diversi da quelli abitudinari, trovandosi poi responsabili in prima persona delle scelte fatte e dei risultati conseguiti.

Per ottenere quindi personale sempre più competente e motivato professionalmente, le aziende decidono di servirsi dell’arma della formazione; essa però non si limita solo ad intervenire per migliorare le capacità delle persone, me soprattutto può essere impiegata per risolvere situazioni in cui vi siano problemi e disagi.

Fare formazione però rappresenta un compito molto delicato; infatti, chi si occupa di questo lavoro deve possedere delle doti umane e professionali non comuni in tutti gli individui, in quanto bisogna sempre tenere presente che si lavora, non con dati o macchine ma con persone in carne ed ossa, ognuna diversa dall’altra e per questo da trattare in modo specifico ed opportuno.

Come suggeriscono Ugo Morelli e Carla Weber, nel loro recente libro su tale argomento275, la riuscita dell’intervento formativo si misura in base all’apprendimento conseguito dai partecipanti; per ottenere perciò un successo sarà necessario valutare, durante la formazione, tutto ciò che si verifica in concreto nella messa in atto di tale procedimento.

Infatti, l’obiettivo degli autori è quello di mettere in discussione il metodo tradizionale della scienza, basato sulla convinzione che vi sia un’unica verità ed un unico metodo valido per tutte le circostanze; in realtà, continuano gli autori, la conoscenza deve essere intesa come un continuo processo di costruzione ed interpretazione da parte dei soggetti che vi prendono parte. Questo modo di procedere è soprattutto valido quando si ha a che fare con la formazione, dove ci si trova di fronte ad una pluralità di situazioni diverse a cui possono essere applicati altrettanti differenti procedimenti educativi; ciò che conta veramente è stabilire che cosa bisogna fare in quel determinato contesto e come farlo: la responsabilità e la preparazione del formatore assumono quindi un ruolo centrale all’interno dell’intervento276.

Il compito che egli deve assumere è piuttosto arduo; infatti, la formazione deve essere vissuta come un grande lavoro di gruppo, in cui conta moltissimo la dinamica di gioco che si instaura tra gli attori che sviluppano le proprie potenzialità cercando però di renderle compatibili con quelle altrui. Il formatore deve essere in grado di ascoltare, leggere e osservare i messaggi che gli vengono inviati, al fine di poterli interpretare; in questo modo di lavorare quindi non c’è un copione standard prestabilito, ma piuttosto proprio dagli imprevisti o dagli ostacoli che possono nascere durante il lavoro di formazione, il formatore può cogliere interessanti spunti per cercare di ottenere il massimo risultato.

Il metodo della formazione-intervento si basa quindi sulla ricorsività tra conoscenza e azione; la conoscenza è intesa come un conflitto, un continuo presentarsi di situazioni nuove che vanno vagliate ed interpretate con sistemi diversi che prevedono da parte del formatore la capacità di compiere ogni volta un’esplorazione attiva delle diverse possibilità di scambio ed intervento che si aprono fra lui ed i partecipanti al corso.

Stiamo parlando di una formazione aperta al dialogo fecondo e proficuo, di una comunicazione che s’incentra soprattutto sul fare e non sull’insegnare, dove spesso poi il formatore si mette da parte per ascoltare ciò che gli altri hanno da dire277.

Come fa notare Giancarlo de Caro, noto consulente aziendale ed esperto di formazione, il ruolo del formatore è di particolare interesse soprattutto perché il suo lavoro prevede anche la capacità di comunicare affettività278. Sappiamo che l’esprimere emozioni rappresenta un forte punto di riferimento nei rapporti interpersonali e dà un senso ed una misura all’andamento della relazione, ma in modo particolare è la capacità di gestire la comunicazione delle emozioni che, nel rapporto, ha la parte dominante con massima attenzione però a far salva l’interazione, consentendo all’altro di esprimersi come e quanto gli è dovuto279.

Questo risulta particolarmente vero nell’ambito della formazione, dato che il formatore è in primo luogo una persona in cui è presente una componente affettiva, in secondo luogo perché la formazione, raccogliendo intorno a sé i soggetti più disparati, non può esimersi dall’offrire, nel suo dispiegarsi, opportunità affettive, spesso anche di stimabile rilevanza.

Il formatore, dunque, nella sua attività, non può non comunicare affetti sia perché possiede, come uomo, delle “competenze affettive”, sia perché l’azienda all’interno della quale opera, concretizza la propria attività esprimendosi in termini di affettività e razionalità; in questo difficile ambito, il formatore è chiamato a svolgere una funzione di coordinamento dei sentimenti e delle emozioni che in esso si generano, restandone al tempo stesso coinvolto e divenendo lui medesimo un dispensatore attento e disinteressato.

A seconda poi degli obiettivi e dei piani strategici che l’azienda vuole raggiungere per mezzo della formazione, essa si servirà di codici affettivi diversi: i due principali sono quello “paterno” e quello “materno”.

Il primo codice prevale quando in formazione si insiste sulla professionalità, particolarmente se specializzata, sul miglioramento della produttività, sulla gestione delle autonomie concesse, sul rispetto dei canoni e delle normative; il secondo invece si utilizza maggiormente quando la formazione è donazione, attenzione ai bisogni, comprensione dei disagi professionali, ma soprattutto il codice “materno” predomina quando la formazione considera tutti uguali i suoi “figli” (utenti) e li cura in maniera da non fare parzialità.

Detto questo possiamo riconoscere che la formazione ai ruoli professionali risente dell’utilizzo da parte del formatore di questi codici ma anche delle tecniche specifiche atte a realizzarli.

Infatti, quando si decide di fare della formazione aziendale, occorre anche saper scegliere i mezzi adeguati per ottenere il massimo conseguimento degli obiettivi che l’azienda stessa ha richiesto.

La tecnica più usata attualmente in formazione è rappresentata dai role playing, o giochi di ruolo280. Lo scopo principale di questo tipo di tecnica è quello di servirsi della pratica della drammatizzazione dei ruoli, attraverso la loro messa in scena, al fine di ottenere un vantaggio formativo che solitamente consiste nella capacità di saper meglio svolgere il proprio ruolo o la propria professione.

Ci troviamo di fronte ad una pratica del tutto particolare, in cui la leggerezza del gioco e la sua possibilità di essere impiegato per fini educativi e formativi, senza per questo togliere al soggetto il gusto di provare a fare cose nuove rispetto agli standard abituali e senza correre il rischio di doverne poi subire le conseguenze, se non al massimo quella di doversi sentire “giocato” da altri, la rende estremamente efficace e allo stesso tempo stimolante sia per chi la vive in prima persona, sia per chi la insegna.

Attraverso l’utilizzo del role playing, il soggetto acquisisce un sapere di cui prima non era a conoscenza, imparando così nozioni nuove che arricchiscono la sua preparazione; in altri casi può succedere anche che questa tecnica evidenzi le sue lacune e metta in discussione le sue certezze, provocandogli un senso di smarrimento iniziale indispensabile poi per ottenere da lui la consapevolezza dei propri limiti necessaria ad apprendere ciò che gli verrà insegnato.

Per quanto riguarda poi i modelli più utilizzati di questo strumento, due sono quelli che devono essere ricordati: il role playing strutturato e quello non strutturato281.

Il primo modello consiste in una sorta di copione o scheda di lavoro preparata precedentemente allo svolgersi del corso di formazione, in cui sono già scritte le parti o i ruoli che i diversi partecipanti al role playing dovranno interpretare e dove sono elencati i problemi su cui si deve dibattere in quello specifico caso; ogni partecipante poi sceglie liberamente le modalità di interpretazione del proprio ruolo e talvolta il formatore può creare situazioni particolarmente utili ai fini di una buona riuscita degli obiettivi del gioco stesso, assegnando ad una persona un ruolo che prevede di confrontarsi con una tesi con la quale lui non è affatto d’accordo, misurando così le sue abilità e competenze.

Il secondo modello, pare particolarmente idoneo alla formazione aziendale, la quale per altro oggi rifiuta un’eccessiva strutturazione ed uno sbagliato ipercontrollo di tutto il setting seminariale e preferisce invece una tecnica basata sulla spontaneità e sulla creatività, aperta al possibile e non utilizzata in modo prescrittivo e addestrativo. Si tratta di creare una situazione nella quale le persone possano dire e fare cose più spontanee e creative di quelle che fanno nell’esercizio ordinario dei loro ruoli e della loro vita lavorativa; <<[…] una situazione che renda possibile rielaborare la definizione, i confini, e i modelli di esercizio dei ruoli ricoperti, innovando, facendo uscire i ruoli dalla loro possibile corazza>>282.

Quindi, per una buona riuscita del role playing, occorre prima di tutto sapere che utilizzo se ne vuole fare e a quali soggetti esso è destinato; secondariamente, è indispensabile vagliare anticipatamente la disponibilità reale dei partecipanti, la loro maggiore o minore tolleranza nei confronti di livelli toccanti di analisi, le loro capacità di controllare il grado e l’intensità emotiva delle interazioni; infine, bisogna spiegare ai partecipanti, prima di iniziare il gioco vero e proprio, che cos’è il role playing e come si può fare.

Oltre a queste necessarie informazioni preliminari, chi si appresta a svolgere una seduta di role playing deve preoccuparsi di scegliere il luogo dove decidere di operare; solitamente è ideale un ambiente fisico che consenta a tutti di muoversi con agio o stare seduti e poter vedere il resto dello spazio, stando a una distanza dagli altri che consenta di parlare in modo normale: per questo è bene evitare i luoghi rumorosi. Inoltre è indispensabile una certa riservatezza, per cui non sono ammessi alla seduta coloro che non svolgono il seminario di formazione, sia per la riservatezza dei contenuti in questione, sia per la necessaria concentrazione indispensabile per il buon esito di questo tipo di pratica.

In questa modalità di gioco non occorrono arredi fissi o particolari scenografie: bastano delle sedie e un tavolo, meglio se agevolmente spostabile, il quale potrà essere messo al centro, se serve, o essere lasciato contro il muro.

Nel caso poi del role playing strutturato, ci si avvale in genere di istruzioni preparate in precedenza, da distribuire; in esse si usa spesso inserire anche qualche dato relativo al carattere delle persone, oltre che informazioni generali e dati sulle strategie di ruolo e sui problemi soggettivi. Il formatore deciderà se è opportuno che tutti leggano tutte le istruzioni o se darle solamente a chi impersonerà il ruolo.

In situazioni molto strutturate o con persone che non hanno dimestichezza con la formazione possono essere utili, a uso degli osservatori, le schede di rilevazione: semplici elenchi di interrogativi ai quali rispondere a gioco ultimato, scale percentuali per diagnosticare comportamenti o atteggiamenti e così via; le schede possono essere distribuite alla fine del gioco, nel caso della valutazione, o consegnate in precedenza, sotto forma di griglia per orientare l’osservazione.

Molti formatori usano la registrazione del role playing, su nastro audio o video. Questa pratica offre un grande vantaggio: il gioco può essere riascoltato o rivisto, fermandosi sui particolari, permettendo di vedere aspetti che nello svolgimento reale non si erano notati, commentando in modo molto analitico lo svolgersi dell’esercitazione283. Per non rischiare però di perdere di vista il panorama totale nel quale gli eventi sono inseriti, occorrerebbe che il formatore si facesse aiutare da un assistente, in grado di appuntarsi i numeri del contatore corrispondenti a momenti particolarmente interessanti o critici, al fine di poter rivedere solamente quelli, dopo che siano state fatte analisi sufficientemente significative dell’insieme; un altro modo di registrare può essere quello tradizionale degli appunti, tenendo sempre presente che la loro validità dipende soprattutto dalla capacità di colui che è impegnato a selezionare le notizie. Gli appunti possono essere presi anche dagli stessi partecipanti al seminario e di questo materiale si servirà, come vedremo poi nella parte relativa ai commenti finali, il formatore per cercare di interpretare il seminario.

Molto spesso il role playing viene condotto da un singolo formatore, che lavora da solo senza l’aiuto di collaboratori esterni, questo soprattutto per gli alti costi di altre presenze professionali; non mancano comunque i casi di collaborazioni tra più persone, in cui gli assistenti possono recitare insieme agli altri partecipanti per animare il gioco stesso oppure possono svolgere il ruolo di osservatori esterni, molto utile per arricchire l’analisi finale e contribuire all’interpretazione che dovrà effettuare il formatore.

Una persona che si appresta a condurre un role playing dovrà essere molto preparata, perché questa tecnica sembra molto facile solo in apparenza; il formatore dovrà possedere sia qualità personali, sia professionali, <<[…] dovrà essere aperto e riservato, amichevole e fermo, dinamico e riflessivo, riuscire a stimolare quando è il caso o ad attendere nel caso opposto. […] Inoltre occorrono qualità simili a quelle del buon formatore in generale: buon senso, mobilità psicologica nell’orientarsi e intuire, destrezza, tatto e sensibilità, per capire abbastanza bene che cosa succede, per essere persuasivo se occorre, indurre a partecipare, dipanare le complessità e i differenti livelli degli eventi. Trattandosi di una tecnica attiva è anche importante una certa capacità di prendere rapidamente – senza interrompere l’azione – decisioni di buona qualità, adatte agli obiettivi e alla relazione tra gli obiettivi e le cose che vanno emergendo>>284.

Dopo queste necessarie premesse preliminari sul role playing, vediamo adesso concretamente come esso si svolge.

Innanzitutto dobbiamo subito precisare che esso è costituito da tre fasi tipiche, a cui se ne aggiunge una quarta solo in situazioni particolari:

1) fase di warming up: introduzione e riscaldamento;

2) fase di azione: gioco;

3) fase di commento, discussione e analisi in gruppo.

A queste tre fasi, si aggiunge tra le seconda e la terza, solo in casi in cui il gioco sia durato più del previsto ed i soggetti siano particolarmente coinvolti, la fase di cooling off, ossia una serie di esercizi necessari per aiutare i partecipanti a ritornare alla normalità e a lasciare i propri ruoli.

Per quanto riguarda la prima fase, essa consiste in una serie di esercizi che i partecipanti al role playing sono costretti a fare per prepararsi poi al gioco vero e proprio; attraverso una serie di giochetti o brevi sketch, i soggetti si riscaldano, iniziando a recitare e a muoversi285.

Dopo la fase di riscaldamento, segue la divisione dei ruoli, che precede il momento dell’azione e del gioco vero e proprio; in questo caso, a differenza dello psicodramma, tutti i partecipanti alla seduta recitano un ruolo, il quale solitamente è scelto di spontanea volontà dai partecipanti oppure è il formatore a indirizzarli, facendo loro delle domande che li aiutino a sbloccarsi e a capire che parte vogliono interpretare. Durante l’azione poi, possono essere attuate da parte del formatore, che solitamente sta in silenzio ad ascoltare gli altri, delle tecniche più o meno complesse, atte a rendere il gioco più articolato; sta nell’abilità del direttore capire fino a che punto i partecipanti sono pronti e capaci di svolgere il gioco secondo le nuove modalità introdotte, eventualmente riportando la situazione ad un livello più semplice se li vede impacciati in tali pratiche, pena il rischio di compromettere il gioco stesso.

Tra le tecniche più usate durante l’azione, ricordiamo: la tecnica dell’“a parte”, quella del doppio, l’inversione dei ruoli e la proiezione nel futuro286.

Per quanto riguarda la prima tecnica, essa consiste nella capacità attorale del soggetto in scena di dire qualcosa rivolgendosi al pubblico; essa risulta molto utile per far dire a colui che sta impersonando un determinato ruolo, cosa pensa veramente di esso e le emozioni che prova mentre lo sta recitando. La seconda tecnica consiste nel fare recitare, dietro l’attore, il formatore o un suo assistente che parla come se fosse la sua coscienza; in questo caso si distinguono due diverse modalità: il doppio “in” o il doppio “out”. Il primo tipo assomiglia ad una sorta di monologo interiore, in cui il formatore o l’assistente si avvicinano all’attore come se egli stesse facendo un monologo interiore, facendo così in modo che il personaggio parli ad alta voce, di fronte ad un pubblico che finge di non sentirlo ma che in realtà, da quel momento non può più fare a meno di ciò che ha sentito, innescando così una sorta di contraddizione potenzialmente fertile per il proseguo del gioco stesso; invece il secondo tipo di tecnica del doppio consiste nel far dire al personaggio cose rivolte agli altri, innescando nell’attore e nel pubblico riflessioni utili a far smuovere la situazione iniziale.

La terza tecnica consiste nell’ordinare a due attori di scambiarsi la parte mentre stanno recitando, ad esempio al capo verrà chiesto di fare il dipendente e viceversa, cercando di aiutare i personaggi ad immedesimarsi nel nuovo ruolo, magari attraverso lo scambio delle posizioni tenute durante la recitazione; questa tecnica è molto utile per aiutare le persone ad imparare ad assumere pienamente i propri ruoli, ma essa non va usata in modo percussivo, perché se si vede che gli attori non riescono ad eseguirla, è meglio interromperla, altrimenti si rischia di far finire il gioco stesso.

L’ultima tecnica prevede la capacità da parte dei giocatori di immaginarsi un incontro da lì ad un anno o più; essa serve a far prendere distanza, a produrre opinioni e giudizi di raggio più ampio, trasformando il presente in ricordo, ridimensionando e rivedendo.

Dopo quanto abbiamo detto, il gioco si conclude con l’interruzione da parte del formatore dopo un lasso tempo prestabilito; se però egli ha deciso di farlo proseguire ancora, perché ha visto ad esempio che si stavano ottenendo dei buoni risultati, allora sarà necessario, una volta che esso sia terminato, attuare la fase di cooling off, per aiutare le persone ad uscire dal ruolo recitato, ritornando così alla normalità. Per fare questo, basterà che il formatore inviti i soggetti a raccontare come si sono sentiti e ad esprimere le proprie emozioni, al fine di farli rilassare e allontanare dal gioco stesso.

L’ultima fase del role playing consiste nel commento e nell’analisi di quanto è avvenuto. Il compito del formatore dovrà essere quello di invitare i partecipanti a ricordare e a trasmettere ciò che hanno provato e le emozioni che hanno vissuto durante il gioco, al fine poi di interpretare ciò che è successo; questo è un compito particolarmente difficile, perché l’attività dell’interpretare prevede sia il comprendere, ossia il capire dentro, sia lo spiegare, cioè il rendere pubblico, l’esplicare.

Siamo di fronte a quello che Anna Ancelin Schutzenberger chiama psicodramma triadico287, nel quale oltre all’azione, un ruolo fondamentale viene ad assumere la riflessione sull’azione, quando la formazione non è finalizzata all’addestramento o all’apprendimento cumulativo.

Il formatore dovrà essere capace di accompagnare, alle critiche e ai commenti negativi che possono sorgere dall’interpretazione del role playing, una parte di proposte di cambiamento, atte a migliorare gli errori e le situazioni problematiche esaminate; inoltre, egli dovrà essere in grado di accogliere i suggerimenti e le riflessioni dei partecipanti, mettendosi quasi sullo sfondo, pronto ad intervenire solo quando la situazione glielo richiederà.

Come sostiene Capranico, il role playing avrà ottenuto successo, se esso si sarà dimostrato potenzialmente destabilizzante, a patto di far seguire alla destabilizzazione, un processo riparativo e ristabilizzante, attuato grazie alla fase dell’interpretazione di gruppo, più feconda rispetto a quella realizzata dal singolo formatore288.

Dopo questa lunga digressione sulla modalità del role playing, giustificata dal fatto che in essa sono presenti le tecniche teatrali e quindi essa rappresenta una pratica concreta di intervento teatrale in azienda, non si può però dimenticare un altrettanto valida tecnica di fare formazione, la quale utilizza un altro strumento: quello dell’autobiografia.

Come suggerisce Duccio Demetrio nel suo recente libro289, il racconto autobiografico rappresenta un importante processo formativo per la crescita dell’individuo, validità che per altro gli era già stata conferita nella Grecia antica e in epoca romana. L’autobiografia già allora veniva considerata come un farmaco in grado di procurare a chi la praticava, il piacere legato alla reminiscenza; inoltre essa era considerata come una pratica capace di creare dissolvenze, cioè il piacere di ricordare le immagini, ma anche la convivenza, ossia di comunicare attraverso la propria testimonianza le emozioni e i ricordi agli altri.

Grazie all’autobiografia, continua l’autore, il soggetto di ogni epoca storica, può giocare con i propri ricordi, in quanto egli durante questa pratica può lasciarsi andare liberamente, senza dover per questo ricercare uno stile di scrittura dotto ed eloquente che in qualche modo potrebbe danneggiare la sua spontaneità.

La pratica autobiografica ci consente, secondo Demetrio, di essere un altro rispetto a se stessi, ossia di staccare il bambino o l’adolescente colti durante le tregue autobiografiche nella loro discorsività o totalità indifferente rispetto a ciò che siamo ora; quando poi la memoria non è perfettamente lucida e non ci ricordiamo tutto alla perfezione, allora ci viene in soccorso il legame simbolico che certi oggetti, cose o situazioni hanno esercitato su di noi290.

Seguendo la teoria transizionale dell’oggetto di Winnicott291, Demetrio arriva a dire che l’autobiografia rappresenta uno di quegli oggetti che nei momenti di ansia o transizione, quando è in gioco una separazione da un luogo a noi caro o da qualcosa o qualcuno a cui siamo particolarmente legati, ci permettono di sopportare la perdita; la differenza di essa rispetto a ogni tipo di altro oggetto, sta nel fatto che l’autobiografia è qualcosa che ci costruiamo da soli.

L’autobiografia, quindi, può essere vista come uno strumento di cui è dotata la nostra “animula” per raccontarsi e raccontare ciò che ha visto lungo il suo viaggio; il suo utilizzo però, secondo Demetrio è molto più proficuo e può seguire modalità diverse.

Innanzitutto si può scrivere la propria autobiografia per piacere personale, per stare e sentirsi bene; secondariamente si può scrivere la biografia di altri; infine, e questo è il campo che più ci interessa, si possono usare le storie di vita come strumento per educare e formare, soprattutto nel campo della formazione aziendale.

<<[…] L’educazione all’autobiografia contribuisce quindi alla formazione sia di una mentalità filosofica e scientifica, sia di una sensibilità maggiore alla solidarietà per gli altri, sia, infine di un habitus intellettuale i cui effetti si riverberano in campi diversi: dalla professione alla vita privata, da un modo di interagire con gli altri alla “capitalizzazione” migliore di ciò che si è e si può ancora diventare>>292.

Dallo studio poi delle biografie altrui, continua Demetrio, realizzato attraverso interviste o organizzando racconti, oltre che dal lungo lavoro impiegato per scrivere la propria storia di vita, l’autobiografico può accedere ad un terzo livello, che lo vede educatore di altre persone.

Sono ormai numerose le scuole di pensiero, le proposte seminariali, le esperienze organizzate appositamente per apprendere l’arte dell’autobiografia o la tecnica della raccolta delle storie di vita, ognuna delle quali si differenzia per procedure, tempi e metodi diversi; non mancano, poi, percorsi di formazione più vincolati a esigenze locali: di aziende, ospedali, scuole. In tali casi i seminari di formazione privilegiano il metodo della ricerca in itinere. Si ricostruisce, con piccoli gruppi di partecipanti (dai 10 ai 15), sia le storie di vita personali che le cosiddette “biografie organizzative” volte a riscoprire ad esempio il luogo di lavoro come una biografia collettiva alla quale, talvolta, ci si rifiuta di partecipare e di collaborare. La ricerca della ragione, delle difese che vedono, per anni, lavorare gomito a gomito donne e uomini (dell’industria, dei servizi sociali o scolastici) senza conoscersi, ignorandosi nel sospetto e nel “dispetto” reciproco, diventa uno scopo del metodo. Chi si coinvolge nella formazione autobiografica – dove il requisito è sempre la libera e volontaria adesione, la disponibilità a lavorare su di sé anche da soli, a dedicare tempo a piccoli esperimenti di osservazione e autosservazione – discute di tutto questo, e non più da solo, per trovare una via d’uscita alla crisi delle relazioni umane nell’organizzazione, con ricadute non da poco sui diritti del cliente e dell’utente.

Ci sono poi dei seminari ancora più specifici che dedicano particolare attenzione alle biografie cognitive: alla storia del proprio apprendimento, alla fatica di imparare, alle specifiche difficoltà che si incontrano da adulti e non, di fronte all’acquisizione di conoscenza e abilità mentali; per mettere il soggetto nella condizione di misurarsi poi con i talenti acquisiti, alcune metodiche seminariali includono anche la trasposizione teatrale dell’autobiografia, la messa in fiaba fantastica, l’uso di tecniche di pittura e la danza.

In conclusione, se crediamo nel valore educativo e formativo dell’autobiografia, non possiamo che concordare con Demetrio:<<[…] l’autobiografia è l’espressione più elevata della coscienza e della consapevolezza; non soltanto ci riporta al passato, essa abbraccia quanto abbiamo vissuto, stiamo vivendo, vivremo; è sintesi e analisi che aggiunge un altro dominio della mente, tutto speciale, agli altri suoi poteri>> e ancora <<[…] ci invita a guardarci indietro e allo stesso tempo avanti se la viviamo sia come percorso di cura, sia come itinerario di apprendimento continuo>>293.

Pertanto, indipendentemente dalle finalità di corsi e seminari, all’educatore-formatore autobiografico interesserà soprattutto che quanto accade nei brevi momenti in cui egli fa questo tipo di pratica, costituisca per i soggetti che la vivono un’esperienza diversa dal solito, qualcosa insomma che valga la pena di ricordare, perché è stata in grado di arricchire la propria storia di vita in modo del tutto particolare. Il solo fatto che qualcuno ricordi di essere stato bene, di essersi trovato forse per la prima volta davanti a questioni irrisolte che richiedevano di essere affrontate o di fronte ad emozioni che nemmeno pensava di avere dentro di sé e che inaspettatamente è riuscito a tirare fuori, allora l’esperienza autobiografica avrà lasciato un segno inequivocabile della sua efficacia terapeutica, così da poterne giustificare l’uso in ambito formativo.

Dopo questa lunga parentesi dedicata alla formazione e alle sue modalità di esecuzione, concluderò questa ampia descrizione sulle possibili metodiche di intervento teatrale in azienda, parlando della drammaturgia scritta e ideata per l’impresa, la quale rappresenta la quarta pratica teatrale da me individuata.

 

 

 

3.2.4: Drammaturgia scritta e interpretata per l’impresa.

 

In questo paragrafo voglio parlare di una modalità di utilizzazione del teatro come strumento a servizio dell’impresa del tutto nuova e ancora in fase di sperimentazione, sia da parte di chi la produce, (cioè gruppi di professionisti che si servono del teatro per fini non puramente artistici), sia da parte di chi ne commissiona l’intervento, ossia le aziende che necessitano di tale pratica.

In ogni caso, in base allo stato attuale della ricerca, per la quale mi sono servita di interviste a persone che lavorano in questo campo294, quando si parla di “drammaturgia per l’impresa”, s’intende un progetto di spettacolo scritto e ideato appositamente per quella specifica azienda che lo commissiona; non si tratta quindi di una drammaturgia convenzionale, ma piuttosto di uno spettacolo teatrale nuovo, scritto per la prima volta con l’azienda al fine di presentare degli input alla dirigenza.

L’occasione è costituita dalla decisione di un nucleo dirigenziale, che per raggiungere alcuni obiettivi, legati soprattutto allo sviluppo delle risorse umane e alla loro motivazione e fidelizzazione, decide di ingaggiare un’agenzia di professionisti specializzati in questo tipo di pratica teatrale, al fine di aiutarli nel conseguimento di tali finalità; attraverso un brief iniziale, ossia una riunione tra la dirigenza e gli organizzatori dell’intervento teatrale, vengono discussi gli scopi che l’azienda vuole raggiungere con questo tipo di pratica e quindi le possibili modalità di scrittura del testo drammatico e della sua messa in scena, operazioni che poi comunque vengono svolte soltanto dai professionisti dell’agenzia stessa, il cui impegno consiste nel realizzare un prodotto che risponda ai bisogni di chi l’ha commissionato.

L’agenzia, quindi, crea un testo studiato appositamente su tali problematiche e la cui messa in scena avviene solitamente in occasioni rituali tipiche dell’azienda: durante le Convention, si procede attraverso un effetto definito “a sorpresa”, a mostrare ad un pubblico prestabilito ma ignaro di ciò che lo aspetta, non le solite slide o immagini video destinate a spiegare l’argomento di cui si dovrà dibattere in tale seduta, ma piuttosto un allettante spettacolo teatrale, producendo un effetto davvero disarmante.

Nella parte relativa alle esperienze concrete italiane, cercherò di spiegare due diversi tipi di intervento teatrale realizzati con questa tecnica.

Procediamo ora all’analisi di alcuni esempi utili ad illustrare come si possano usare

 

effettivamente le metodiche di intervento teatrale in azienda.

 

3.3: Alcune esperienze significative italiane.

 

In questo paragrafo mi appresto a presentare e a raccontare alcuni esempi italiani di come sia stato possibile, e/o lo sia tuttora, utilizzare concretamente lo strumento teatrale e le tecniche ad esso correlate, per intervenire nella realtà aziendale. Si tratta di una prima ricognizione di materiali ed esperienze, che non esclude comunque altre esperienze e contributi; le esporrò secondo un criterio di importanza, muovendo da un livello più semplice e “tecnico”, per giungere ad uno sempre più complesso e articolato.

 

3.3.1: Il teatro come strumento di comunicazione.

 

Quella che mi appresto a descrivere è l’esperienza di una donna-attrice che ha voluto fare del teatro la propria ragione di vita; la formazione di questa professionista ha rappresentato solo il punto di partenza indispensabile per raggiungere poi il vero obiettivo che ella si era prefissata: diventare un’operatrice culturale295.

Nel corso della piacevole conversazione che ho potuto avere con Teresita Fabris nel febbraio 1999, ho ricavato delle utili osservazioni, per quanto riguarda l’importanza dell’impiego dello strumento teatrale al fine di migliorare la comunicazione umana in generale, di cui per altro la nostra società contemporanea sembra avere particolarmente bisogno, in quanto soffocata da quella tecnologica e mediale.

Il nostro discorso si è aperto con un dibattito su quali erano state le sue intenzioni nello scrivere Professione comunicatore296, il libro da lei recentemente pubblicato e dedicato appunto a migliorare i difetti della comunicazione umana, attraverso l’uso delle tecniche teatrali.

L’intento dell’autrice era quello di scrivere un libro per i bambini, o meglio, dedicare uno studio alle modalità con cui curare i vezzi e i difetti di pronuncia di cui soffrirebbero i più piccoli; la sua convinzione era quella che tali difetti, per essere del tutto superabili, andassero corretti fin dalla tenera età; inoltre, non la interessava scrivere un testo destinato agli aspiranti attori, perché per loro esistono già molte scuole specializzate in questa direzione.

Ma, per problemi di incomprensione con la casa editrice, ha dovuto abbandonare il suo progetto e quindi ripiegare su un libro per adulti, rivolto ad un pubblico disomogeneo che avesse bisogno, per svariati motivi sia professionali che relazionali, di migliorare la propria comunicazione.

Nessuno meglio della Fabris avrebbe potuto constatare questo tipo di disagio, largamente presente nella nostra società e grazie alla sua lunga carriera professionale, l’autrice ha potuto acquisire gli strumenti e le abilità necessarie per compiere questo tipo di progetto. Il suo sogno quindi era quello di fare cultura e comunicazione, in uno scambio fecondo di nozioni e pareri condivisi o meno con altre persone, a cui lei riteneva di poter offrire ciò che durante la sua esperienza era riuscita ad apprendere; e così ha fatto.

Ma, tra le numerose esperienze che hanno segnato la sua carriera professionale, la più interessante, ai fini di questi studio, è sicuramente quella che riguarda la preparazione dei manager. Come riferisce la Fabris, sono stati gli stessi manager e dirigenti d’azienda a rivolgersi al lei privatamente per prendere delle lezioni di dizione e gestualità297. Lo scopo di questo lavoro, continua la Fabris, è stato quello di fornire a queste persone delle abilità tecniche che le permettessero di parlare correttamente e muoversi in modo sciolto e disinvolto ogni qual volta si fossero trovate in presenza di un pubblico venuto lì per ascoltarle. Infatti, come lei racconta, questi individui, pur capaci professionalmente, lamentavano però dei seri difetti di pronuncia e di accentazione delle parole; attraverso continui esercizi di lettura, soprattutto di passi del Manzoni, ritenuto dalla Fabris ricco di una punteggiatura efficace, è riuscita ad insegnare a queste persone a parlare correttamente. In alcuni casi, soprattutto quelli più seri, è dovuta ricorrere anche agli esercizi sulla respirazione, impiegati solitamente per la preparazione attorale. Come lei stessa riferisce, questo è stato un lavoro prevalentemente di tipo tecnico, in cui delle persone si esercitavano nella lettura di testi, su cui poi venivano ascoltati, senza esservi dietro, da parte dell’insegnante, nessuno scavo di natura psicologica; anche se, come la Fabris ammette, non è mai possibile lavorare con e su una persona, senza almeno cercare di capire chi ci troviamo di fronte. Fatta questa opportuna precisazione, rimane il dato inequivocabile che il lavoro compiuto da queste persone non prevede mai un’analisi di tipo psicologico com’è quella che gli attori fanno prima di interpretare un personaggio: quando si insegna solo dizione, ci si trova ad un livello di uso delle tecniche teatrali inferiore rispetto all’impiego recitativo.

L’esperienza avuta con i manager ha spronato ancora di più Teresita Fabris a credere nella potenza dello strumento teatrale come mezzo necessario per permettere ad ogni persona di prendere coscienza ed acquisire sicurezza nelle proprie doti e nelle proprie capacità, sapendo anche trasformare in pregi gli inevitabili limiti e difetti che ognuno di noi possiede.

Il metodo consiste nel far imparare agli individui a dosare sapientemente pause, semipause e accenti al fine di essere padroni della propria comunicazione; per aiutarli ad apprendere queste tecniche, la Fabris fa eseguire loro tutta una serie di esercizi basati sulla lettura, sulla vocalità e sulla respirazione, seguiti da quelli sulla gestualità ed i movimenti corporei, indispensabili per conoscersi, sentirsi e toccarsi, in vista della possibilità di lavorare in gruppo; l’obiettivo è fornire a questi individui la sicurezza e le capacità personali per affrontare qualsiasi tipo di professione lavorativa.

Infatti, la Fabris è convinta e, questo è anche l’obiettivo che noi vogliamo dimostrare, che la potenza dello strumento teatrale è tale perché esso serve ad insegnare ad una persona a sfruttare le proprie potenzialità espressive indispensabili per poter intraprendere delle relazioni basate su una comunicazione autentica; stiamo parlando di un teatro inteso come rivelazione, che permetta ad una persona di liberare le virtù nascoste, capendo così ciò che veramente può fare e non invece dell’arte usata come finzione al fine di ingannare gli altri.

La nostra società tecnologica, apparentemente dominata dall’ipercomunicazione, ma dove in realtà con il passare del tempo le persone sembrano aver perso la voglia e la capacità di comunicare apertamente l’uno con l’altro e dove il mondo del lavoro è stato a lungo dominato da individui in grado di pensare e lavorare solo con la testa, sembra lanciare un chiaro messaggio di aiuto al mondo del teatro, affinché per mezzo delle sue tecniche espressive, riesca a riportare una situazione di equilibrio e benessere.

Voglio chiudere la descrizione di questa esperienza, a mio avviso particolarmente utile e significativa per capire come concretamente il teatro possa essere impiegato in aiuto di realtà a lui solitamente non consone, riportando le parole di Teresita Fabris:<<[…] è come se il corpo di un uomo, tenuto per troppo tempo chinato e sopito a causa dell’impossibilità di esprimersi pienamente, a cui lo costringono sia la nostra società che il mondo del lavoro, un giorno si risvegliasse tutto intero: questo sarebbe il frutto di un serio contributo teatrale a lui fornito>>298.

Un altro significativo esempio di questo modo di utilizzare le tecniche espressive tipiche del teatro per ambiti che esulano da quello specificatamente attorale per il quale sono nate, è rappresentato dal lavoro di Romana Garassini, di cui in questa sede mi interessa parlare dell’applicazione solo in ambito aziendale299. Come riferisce la Garassini, l’azienda solitamente si rivolge a lei per richiedere un intervento immediato e breve al fine di preparare delle persone singole o dei gruppi che lavorano alle sue dipendenze, in quanto inizialmente incapaci di farlo, a sostenere delle presentazioni in pubblico, delle interviste stampa o alla radio, delle Convention o dei dibattiti, in cui questi individui devono trasmettere dei significati e dei contenuti cardine per l’immagine dell’azienda stessa. Il consulente è chiamato a soddisfare la richiesta dell’impresa, cioè quella di fornire ai propri collaboratori le tecniche di dizione e di comportamento necessarie per affrontare questo tipo di situazioni particolari, facendo in modo che ogni persona possa esprimersi attraverso una comunicazione più efficace e con una consapevolezza maggiore delle proprie capacità e dei propri limiti, al fine di risultare il più possibile convincente nei confronti dei propri interlocutori.

Svolgere questa professione non è certo facile ma soprattutto, come precisa la Garassini, non tutti possono diventare dei bravi insegnanti di dizione e dei buoni comunicatori300; innanzitutto occorre una buona base artistica ed in questo caso lei stessa riconosce di essere stata favorita dalla propria preparazione attorale; secondariamente è indispensabile possedere anche una buona preparazione culturale affiancata però da una sensibilità particolare di tipo psicologico, fondamentale per capire le persone con cui si deve lavorare. Infatti, ed in questo la Garassini insiste molto, la sua esperienza la spinge a non utilizzare mai un metodo standard preconfezionato, valido per tutte le circostanze. Il suo lavoro consiste nel partire da un’impostazione teatrale di base, adattata ed incanalata a seconda degli individui cui è rivolta e a seconda dei bisogni che l’azienda richiede: l’importante è essere capaci di trasmettere a queste persone degli input, che poi loro dovranno essere in grado di utilizzare nel momento del bisogno.

La sua modalità di fare un training di comunicazione, prevede la seguente “scaletta”: la prima fase consiste nel presentare al singolo o al gruppo, solitamente composto da non più di otto-dieci persone, il piano di lavoro e gli obiettivi che si vogliono raggiungere. In seconda fase, viene distribuito un testo che dovrà essere letto ad alta voce, mentre una telecamera li registrerà. Segue poi una fase di metarelazione e di autocritica personale in cui la Garassini cerca di capire, rivedendo le registrazioni filmate e facendo rilevare agli stessi partecipanti al corso, i loro difetti, annotandoli in un’apposita scheda di valutazione, che viene esposta ai singoli alla fine del corso. Solo a questo punto la Garassini spiega loro quali sono le tecniche usate nel parlare in pubblico, chiarendo immediatamente che la finalità del corso non risponde solo ad un bisogno aziendale ma che attraverso il seminario ognuno potrà ricavare un beneficio ed un arricchimento personale per se stesso; inoltre, il compito del comunicatore deve essere quello di mettere ciascun partecipante nella condizione di essere libero di manifestare le proprie paure e i propri difetti, facendo loro capire che se si nascondono dietro una maschera, dando un’immagine di falsità per timore di fare una brutta figura, il corso avrà fallito la propria missione, perché proprio grazie ad esso ognuno dovrà poi essere in grado di sostenere un ruolo anche quando il proprio stato d’animo non glielo consentirà. In ogni caso, a fine corso, l’azienda solitamente chiede al consulente di mostrarle come ciascun partecipante ha lavorato e che risultati ha ottenuto, verificando così anche l’impegno dei propri dipendenti.

Dopo questa ampia parentesi preliminare, continua la Garassini, il seminario si focalizza maggiormente sugli esercizi di respirazione, concentrati in un’ora di lavoro svolto a terra, dove tutti i partecipanti si posizionano in cerchio; dato che, solitamente, le persone che seguono il corso non conoscono questi tipi di esercizi, base fondamentale invece del lavoro di ogni attore per la preparazione alla recitazione, la Garassini fornisce loro un supporto cartaceo funzionale a spiegare come poterli svolgere. Una volta conclusa la parte di esercizi a terra, si procede alle simulazioni, vere e proprie recitazioni di dieci minuti ciascuna, in cui ogni persona si prepara a leggere un discorso o a vendere un prodotto, a seconda di quello che deve imparare a fare. Tutta questa fase è registrata, in modo che poi possa essere rivista e analizzata, come in precedenza, al fine di permettere al consulente di capire come dover operare con ogni partecipante. A questo punto, la Garassini lavora singolarmente con ciascun individuo, suggerendo le tecniche corrette ed efficaci per potersi preparare al meglio a svolgere il proprio compito.

Solitamente, continua la Garassini, la lunghezza di questi seminari dipende dal tempo che le persone interessate e l’azienda stessa decidono di impiegare in questo tipo di formazione; in ogni caso, sulla base della sua esperienza personale, è opportuno che i corsi non durino mai più di due o tre mezze giornate, in quanto non si pretende di insegnare a queste persone la tecnica corretta della respirazione attorale, (il che richiederebbe un lavoro di almeno sei mesi), ma di fornire loro degli input ed un metodo che, se continuato al di fuori del seminario, permetterebbe di sviluppare le proprie potenzialità, riuscendo così a realizzare i propri obiettivi. Comunque, continua la Garassini, a lei è capitato anche di fare un lavoro serio e completo sulle tecniche del parlare in pubblico, la cui realizzazione ha richiesto molto più tempo di quello impiegato solitamente per fare formazione in azienda ma è opportuno ricordare che le imprese tendono a voler concentrare questo tipo di corsi in poche sedute.

In ogni caso, Romana Garassini ribadisce che, anche se l’impresa impone al comunicatore di eseguire il proprio lavoro in tempi ed in condizioni non sempre favorevoli, comunque la professionalità di un buon formatore impone di eseguire il proprio lavoro, preoccupandosi sempre di farlo in modo serio e proficuo, al fine di fornire dei benefici a coloro che partecipano ai propri seminari: questo vuol dire fare cultura all’interno dell’azienda; dall’altra parte però, ci si scontra con la dura realtà del mondo del lavoro e delle imprese, le quali purtroppo, oggi, investono ancora molto poco sia in termini di denaro che di risorse nella formazione culturale. Bisogna tenere conto di questo aspetto quando si inizia a lavorare con esse, altrimenti si rischia di venirne travolti, non sapendo più come conciliare le proprie convinzioni con i loro obiettivi, i quali spesso non coincidono con i progetti del consulente.

Per chi invece auspica l’utilizzo dello strumento teatrale per risolvere le problematiche di tipo relazionale e umano, la Garassini risponde, sempre in base alla propria esperienza, che non ne esclude una possibile applicazione, dato che la realtà attuale del mondo del lavoro è dominata da situazioni conflittuali tra gli individui, che oggi soprattutto lamentano anche soprusi psicologici da parte di dirigenti spesso frustrati che a loro volta, visto l’attuale precarietà dei posti di lavoro, non hanno la possibilità di ribellarsi; quindi, un tale tipo di intervento potrebbe trovare un valido mercato di applicazione, nonostante, sempre secondo le conoscenze della Garassini, in azienda, oggi, nelle realtà in cui si verifica, questi tipi di situazioni vengono risolte con l’intervento dello psicologo del lavoro, una figura professionale che agisce nell’impresa ed il cui operato incontra spesso forti ostruzioni, sia da parte della dirigenza, sia da parte dei dipendenti stessi301.

In America già si parla della possibilità concreta di far funzionare meglio le organizzazioni, grazie ad una modalità di rapporto da parte del management con i propri collaboratori e dipendenti, basato sulla maggiore disponibilità e umanità nei loro confronti, arrivando addirittura a dire che basterebbe un minuto al giorno in cui ogni manager si sforzasse di gratificare le persone che lavorano con lui, per ottenere un risultato di benessere collettivo per tutta l’azienda.

Ma se questa può apparire a noi un’utopia, dovrebbe invece rappresentare uno spiraglio per iniziare un cambiamento concreto nella nostra realtà italiana, nella quale, come spesso accade, le novità arrivano con il conta gocce rispetto ad altri paesi ma dove, se si vuole sopravvivere in una società globale come è quella attuale, bisognerà trovare una soluzione, proponendo un progetto di miglioramento umano e professionale in azienda302.

 

3.3.2: L’attore professionista in azienda.

 

Dopo la testimonianza di due donne attrici e professioniste nell’insegnamento delle tecniche di dizione, mi appresto ora a descrivere il lavoro di un attore, che ha deciso di mettere a disposizione le sue competenze attorali per fini non puramente legati all’arte teatrale e secondo modalità diverse da quelle della recitazione tradizionale: si tratta dell’esperienza di Pierpaolo Nizzola303.

Come lui stesso riferisce, il primo vero contatto con il mondo dell’impresa gli si è presentato quando faceva ancora parte della compagnia teatrale di Grock e proprio a loro si era rivolta una compagnia assicuratrice, nel caso specifico la Previdente Assicurazioni, per chiedere di mettere in scena uno spettacolo finalizzato a pubblicizzare un loro prodotto, cioè una polizza a vita, che aveva dato alcuni problemi.

Questa, come precisa Nizzola, può essere considerata una prima applicazione, anche se a livello puramente strumentale, dell’esperienza teatrale all’impresa; infatti, il copione era stato scritto interamente dai responsabili dell’ufficio personale, mentre a lui era toccato solo il compito di dover realizzare l’adattamento drammaturgico.

Lo spettacolo era stato rappresentato durante tre Convention, rispettivamente nel nord, centro e sud Italia, nelle diverse sedi della compagnia assicuratrice, ottenendo uno stupefacente successo dovuto soprattutto all’effetto di novità e sorpresa che esso era riuscito a creare in quanti per la prima volta assistevano a questo tipo di presentazione, solitamente inusuale per la sponsorizzazione di un prodotto in una sede ufficiale come quella della Convention.

Inoltre, Nizzola riferisce di aver avuto un altro tipo di esperienza di teatro a servizio dell’impresa, realizzando degli interventi teatrali con scopo decorativo durante delle Convention, finalizzati alla sponsorizzazione di determinati prodotti che quell’azienda produceva; in questo caso però, a differenza dell’esempio sopra citato, l’attore aveva la massima libertà di espressione e di modalità di recitazione, purché logicamente riuscisse a presentare il prodotto, valorizzandone al meglio le sue caratteristiche di vendita.

Un altro lavoro, sicuramente insolito per la tradizionale professione di un attore, Nizzola l’ha affrontato con una scuola di management, il CESMA, che l’aveva contatto per tenere delle lezioni di public speaking, indirizzate a manager, dirigenti, titolari di piccole aziende, esperti di pubbliche relazioni e responsabili di vendita, mandati dalle proprie imprese nelle quali lavoravano. Anche questa esperienza si è rilevata molto proficua e stimolante: l’attore ha potuto constatare in prima persona come, attraverso le tecniche di dizione teatrale, anche delle persone che nella loro vita non erano mai venute a contatto con questo strumento, potessero restarne affascinati e ricavarne dei benefici personali e professionali.

Nizzola ha poi svolto lo stesso lavoro, cioè quello di insegnare a parlare e muoversi in pubblico, per la rivista Argomenta, anche qui riportando dei buoni risultati.

Un’ultima esperienza di impiego teatrale per fini aziendali, Nizzola l’ha svolta sempre su incarico del CESMA, (commissionato a sua volta però dal Comune di Bologna, che ne era il destinatario); l’obiettivo era quello di risolvere dei problemi di funzionalità dei propri quadri dirigenti e per realizzare questo scopo ha deciso di servirsi delle tecniche del role playing, tipiche della formazione aziendale. Come riferisce lo stesso Nizzola, si è trattato di dover condurre un gioco di ruolo, in cui l’attore, dopo aver proposto uno schema di lavoro e aver diviso i quadri in gruppi, (ognuno dei quali incaricato di mettere in scena lo stesso problema), si è fatto da parte per osservare come si svolgeva il gioco. Alla fase di gioco, è seguita la parte di interpretazione e di analisi, da lui condotta, che ha evidenziato, sentendo anche le opinioni dei partecipanti, una maggiore consapevolezza e disponibilità degli individui ad aprirsi fra loro, soprattutto quando si trattava di affrontare tematiche di gruppo. Quindi, l’obiettivo anche in questa occasione era stato raggiunto.

Inoltre, come lui stesso riferisce, anche questo lavoro ha dimostrato che l’esperienza attorale, che prevede l’unicità della fusione di corpo e parola e una competenza culturale elevata, conferisce alla formazione un livello qualitativo superiore.

La potenza della rappresentazione teatrale consiste, secondo l’esperienza di Nizzola, nella capacità di smuovere la situazione, di far emergere i problemi, attraverso la loro messa in scena: questo non è altro che lo straordinario effetto catartico di cui gode il teatro e che gli altri media gli invidiano profondamente.

In ogni caso, la testimonianza di Nizzola vuole essere anche un esempio per spronare il mondo del teatro e quanti vi operano ad uscire dalla turris eburnea che l’ha avvolto per anni ed in cui anch’egli all’inizio è rimasto coinvolto; portare il teatro fuori dal suo ambito tradizionale di collocazione, per farlo diventare un utile strumento anche a servizio dell’impresa è un’operazione possibile che può dare dei buoni risultati.

 

3.3.3: La drammaturgia scritta per l’impresa.

 

Quello che adesso mi appresto a descrivere come esempio significativo di teatro in azienda deve essere fatto rientrare nella quarta tipologia di metodiche di intervento che ho precedentemente elencato: mi riferisco alla cosiddetta “drammaturgia per l’impresa”, ossia un progetto di “spettacolo scritto e interpretato per”.

I due esempi che intendo presentare solo il frutto dell’esperienza professionale di Laura Cantarelli, realizzati grazie alla collaborazione della società per cui lavora304. Innanzitutto, è lei stessa a precisare, di aver affrontato, con questi due lavori, una modalità del tutto nuova di fare teatro in azienda; infatti, non si tratta né di una drammaturgia convenzionale rappresentata da una compagnia di professionisti durante i momenti rituali dell’impresa, né di una drammaturgia di formazione volta a realizzare dei percorsi di cambiamento all’interno dell’organizzazione, ma piuttosto di progettare uno spettacolo teatrale, dalla fase di ideazione a quella di interpretazione, in collaborazione con l’azienda al fine di presentare al proprio interno degli input da parte della dirigenza.

In tal modo lo spettacolo teatrale ha dei precisi committenti: in questo caso è il nucleo dirigenziale che si rivolge alle società che svolgono questo tipo di lavoro, affinché esse preparino uno spettacolo teatrale da mettere in scena durante le occasioni rituali tipiche dell’azienda, solitamente si tratta di Convention e realizzato per comunicare dei precisi contenuti ai propri pubblici interni e ai collaboratori più stretti.

In entrambe le esperienze vissute dalla Cantarelli, si è trattato quindi di trovare un modo del tutto originale per rivoluzionare lo schema tipico della comunicazione diretta e formale di cui solitamente si serve l’azienda; infatti, ci troviamo in presenza di imprese che decidono di abbandonare la dinamica tradizionale della Convention, in cui uno o più dirigenti parlano da un podio, con un microfono, seguendo una precisa scaletta di ordine degli interventi e servendosi, dove necessario, di video-wall su cui proiettare slide o immagini, al fine di riprendere o alcuni concetti chiave per l’azienda o di presentare dei dati relativi alle vendite e così via.

L’impresa sceglie di aprire la Convention, con uno spettacolo fondamentalmente di narrazione, il quale crea nel pubblico un effetto a sorpresa sconvolgente; la sala è completamente a buio e l’atmosfera creata è quella tipicamente teatrale, grazie anche all’ausilio di particolari elementi scenografici ed al corretto uso delle luci in sala che permettono di isolare l’ambiente. In questa suggestiva cornice teatrale, entra l’attore, provocando un effetto di sorpresa e sbalordimento nel proprio pubblico, che invece si aspetterebbe di veder iniziare la Convention con il tradizionale discorso o la consueta relazione di apertura fatta dall’amministratore delegato dell’azienda.

In entrambi i due lavori, la Cantarelli ha dovuto realizzare un testo scritto ad hoc per il committente; è l’azienda stessa a convocare gli organizzatori del lavoro teatrale, per comunicare loro gli obiettivi che essa vuole raggiungere attraverso questo tipo di esperienza: durante il cosiddetto brief, vengono discusse le problematiche tipiche che si vogliono affrontare, le quali solitamente riguardano la sfera delle risorse umane e la loro motivazione ma che possono anche interessare l’area della fidelizzazione del cliente.

Nasce così lo scheletro drammaturgico del testo, accompagnato dalle prima note di regia; logicamente spetta poi agli organizzatori dell’evento teatrale trovare il modo migliore e allo stesso tempo più efficace di realizzare gli intenti che l’azienda ha loro richiesto.

In entrambi i casi di cui si è occupata la Cantarelli, si è preferito mandare in scena un unico attore, accompagnato dalla presenza di alcuni oggetti scenografici particolari305.

Occorre subito notare che nel primo caso persino la scelta del titolo non è stata casuale: infatti, dato che l’azienda committente si occupava di editoria e l’obiettivo era quello di ripercorrere i valori di un prodotto che aveva a che fare con il mondo della carta stampata, era indispensabile trovare un titolo che evocasse il bisogno del ritorno alla parola.

Per quanto riguarda poi la realizzazione dello spettacolo, bisogna subito precisare che l’unico attore, è rimasto in scena da solo per cinquanta minuti, facendo una narrazione che toccava i punti salienti di qualità del prodotto che l’azienda voleva presentare, mettendosi però dalla parte di chi usufruiva di esso, al fine di motivare il proprio personale interno a valorizzare maggiormente il proprio lavoro, perché tutti gli elementi di valore profondo che il prodotto poteva avere per il consumatore finale, dipendevano essenzialmente dalle modalità che loro impiegavano per la sua produzione.

Un altro elemento molto importante è stato quello scenografico; infatti, la scenografia è stata realizzata con l’impiego di oggetti molto evocativi, atti a fornire un supporto simbolico alle parole dell’attore, il quale per altro si muoveva in questo spazio. Lo scenografo ha optato per realizzare due scale alte quattro metri ciascuna, di cui una aveva in cima un libro e l’altra una grossa luna; inoltre sul palcoscenico è stato posizionato un albero fatto di foglie su cui erano disegnate delle lettere alfabetiche.

Lo spettacolo, come riferisce Laura Cantarelli, ha ottenuto notevole successo e un ottimo risultato per quanto riguarda gli obiettivi da raggiungere.

Un secondo esempio è stato realizzato con una struttura molto simile al precedente. In questa nuova circostanza il brief non è stato incentrato sulla motivazione di vendita del prodotto; l’obiettivo dell’azienda era piuttosto quello di motivare i propri uomini affinché investissero nella formazione del proprio personale addetto alle vendite306. Per scrivere il testo drammaturgico, dato che il committente era un cliente tedesco, si è deciso di prendere come fonte di ispirazione Le storie di calendario di Peter Hans Hebel ed in particolare di quest’opera sono stati scelti due racconti basati sul commercio. Il primo di essi parlava di un cliente molto furbo che era riuscito a beffare un oste perché costui era impegnato ad occuparsi della concorrenza; quando si accorge di essere stato beffato dal cliente, allora gli chiede di ripetere la beffa ad un altro oste a lui concorrente, trovandosi però spiazzato, quando è lo stesso cliente a dirgli di essere stato mandato dall’altro oste per recare a lui la beffa che in precedenza egli aveva subito dal cliente.

Il secondo racconto rappresenta una parabola positiva, in cui un garzone di bottega imbarcatosi su una nave decide, vedendo che i compagni che si trovano con lui si vogliono divertire, di inventarsi un prodotto, cioè di vendere indovinelli; la storia, dopo un qui pro quo iniziale, si risolve molto bene, perché ciò che contava veramente era di riuscire a vendere all’interlocutore ciò di cui aveva bisogno, raggiungendo così il proprio obiettivo.

Anche in questo caso un unico attore in scena, ha narrato per quindici minuti i due racconti, vestito da Arlecchino; nel primo caso l’attore entra improvvisamente nella Convention, trascinando con sé un carro di cartone a forma di casa alto come lui ed incomincia il racconto; nel secondo caso invece, prima di narrare la storia, si toglie la maschera e soltanto dopo essere salito sul carro, inizia a parlare. La rappresentazione si conclude con l’attore che, lanciando degli input al pubblico presente in sala, abbandona la scena, pronunciando, prima di uscire definitivamente, una citazione tratta da Saramago:<<Voi vi chiederete che cosa c’entra tutto questo con il vostro prodotto: io vi rispondo che siamo tutti e due dei venditori, perché io vendo storie>>.

Lo spettacolo, riferisce sempre la Cantarelli, è ben riuscito anche questa seconda volta, in quanto si è lavorato con uno strumento, quello teatrale, in grado di scuotere efficacemente e velocemente la sfera emotiva dei partecipanti, senza obbligarli a dover subire la solita predica tipica della comunicazione tradizionale.

Quindi, continua la Cantarelli, con l’uso dello strumento teatrale, si sono potuti ottenere risultati di apprendimento molto più alti ed in un tempo inferiore rispetto a quello impiegato dai metodi tradizionali, con la difficoltà però di riuscire a trovare una forma di collegamento il più possibile adatta a rappresentare i contenuti che si vogliono comunicare. In ogni caso questo tipo di intervento teatrale si presta molto bene ad essere impiegato per comunicare a livello delle relazioni umane e personali, dove cioè entrino in gioco delle emozioni a confronto fra loro; al contrario esso sarebbe stato fallimentare dove si fossero voluti mostrare bilanci o tecnologie aziendali, in quanto sarebbe stato più opportuno ricorrere a strumenti di matrice più specificatamente economica.

Dopo questo tipo di intervento, sia gli organizzatori che l’azienda prediligono che il feedback relazionale avvenga in modo del tutto informale: volutamente si lascia, che le persone che hanno assistito allo spettacolo, scelgano liberamente il modo migliore di comunicare le sensazioni che hanno ricavato dalla partecipazione a quel determinato evento teatrale. Così come succede a teatro, dove sarebbe assurdo che all’uscita di una rappresentazione ci fosse un intervistatore pagato dalla compagnia teatrale per registrare le impressioni che gli spettatori ne hanno ricavato, così non sarebbe giusto e non rappresenterebbe neanche uno strumento omogeneo servirsi di un questionario standard per ricavare le impressioni che la rappresentazione ha suscitato sui dipendenti dell’azienda. O la rappresentazione ha successo oppure no, non esistono vie di mezzo.

La lunga descrizione dell’esperienza professionale di Laura Canterelli, si è conclusa con una significativa riflessione, la quale lascia ben sperare per le future sorti della drammaturgia per l’impresa; come lei stessa riferisce:<<[…] la strada per un intervento teatrale in azienda è sicuramente aperta; comunque, tutto nasce se c’è un bisogno e questo parte sempre dall’azienda, la quale liberamente decide di rivolgersi ai professionisti del teatro per cercare di sanarlo. Non esiste un modello e delle regole teatrali da seguire quando si decide di praticare questo tipo di lavoro: fare teatro in azienda significa usare la sapienza dell’arte teatrale considerata come un’esperienza che è in sé antropologica, sociologica e psicologica. Allora, secondo questo tipo di visione, c’è spazio per delle pratiche teatrali che possano essere impiegate per obiettivi e modalità diverse; chiunque decida di intraprendere questo tipo di professione, tenga sempre presente che ogni tipo di lavoro ma soprattutto in un ambito come il nostro, non può essere considerato come un’attività di tipo standard e perciò sarà il singolo individuo, a seconda delle proprie capacità, a scegliersi la strada che vorrà percorrere, sia essa la libera professione, o il lavoro di collaboratore all’interno dell’azienda, soprattutto nel campo della comunicazione interna e delle risorse umane. Oggi più che mai sono favoriti in questa direzione i giovani laureati con un curriculum umanistico e delle competenze come le mie>>307.

 

3.4: L’azienda come fonte di ispirazione per il teatro (rif. Teatro di Shakespeare, la corte come ispirazione x le sue opere, come l’azienda x i drammaturghi di oggi)

 

Dopo questa ampia carrellata dedicata ad alcuni esempi riferiti alla realtà italiana e da me ritenuti particolarmente significativi per illustrare concretamente le possibili modalità di intervento teatrale all’interno dell’azienda, vorrei ora soffermarmi su un modo diverso di intendere il teatro o la drammaturgia d’impresa ma che con quelli precedenti intrattiene un legame del tutto singolare, al punto da poter essere considerato anche come modello o fonte di ispirazione per quanti vogliono utilizzare lo strumento teatrale a servizio dell’impresa: sto parlando di un teatro che ha fatto delle vicende aziendali ed economiche la materia su cui costruire la propria drammaturgia.

Nonostante questa precisazione, parlare di teatro o drammaturgia per l’impresa volendosi riferire all’opera di drammaturghi e artisti che si sono serviti della realtà aziendale, trasformandola in argomento per le loro opere teatrali non è del tutto corretto; infatti, (come ho cercato di chiarire nei paragrafi precedenti riguardanti le metodiche di intervento teatrale e gli esempi relativi ad esse), solitamente quando si parla di intervento teatrale in azienda, qualsiasi sia la sua finalità, si tratta sempre di una richiesta commissionata da un’organizzazione ad una determinata società che si occupa di questi lavori, dietro il pagamento di un compenso per la propria prestazione; nel caso di spettacoli scritti apposta per l’azienda, il pubblico destinato a fruirne è solitamente solo quello che fa parte della sua organizzazione.

Invece, mi interessa parlare in questo paragrafo di un modo del tutto singolare di fare drammaturgia per l’impresa: si tratta dell’opera di un drammaturgo e della messa in scena da parte di professionisti che hanno deciso di rappresentare per un pubblico non certo esclusivamente legato all’ambito aziendale, delle vicende che parlassero di un argomento di forte attualità come può essere quello della realtà economico-imprenditoriale del nostro tempo. Anche questo può essere un modo di fare teatro per l’impresa, una modalità che si richiama alle radici più profonde e distintive del teatro inteso come rito civile, luogo dove da sempre si può parlare e discutere dei problemi di ogni tempo, in modo del tutto spontaneo e soprattutto “civile”. La vera novità di questo modo di fare teatro consiste quindi nel volersi occupare dei problemi contemporanei all’uomo della nostra società e non di raccontare solo qualcosa di puramente inventato o lontano nel tempo, come già del resto avevano fatto in passato i greci nelle loro commedie o tragedie, in cui chi vi assisteva sapeva benissimo di chi e di che cosa si stesse parlando. Questo, appunto, è stato l’obiettivo del lavoro realizzato dal teatro Settimo di Torino dal titolo Camillo: alle radici di un sogno, riguardante la storia dell’origine dell’impero Olivetti, dalla nascita nel 1868 del suo fondatore Camillo, fino alla morte nel 1960 di Adriano, figlio e successore dell’opera iniziata dal padre.

Questo tipo di drammaturgia ha un precedente di rilievo nell’opera del drammaturgo francese Michel Vinaver308, che ha fatto delle vicende della vita quotidiana e soprattutto dei rapporti economici la materia di ispirazione per le sue opere teatrali, nonostante vi siano delle profonde differenze tra il suo modello di drammaturgia e quello invece del Teatro Settimo. Senza volere in questa sede scendere nei dettagli, poiché di questo autore parlerò in modo approfondito nel prossimo paragrafo, si può comunque riassumere la diversità delle due impostazioni teatrali dicendo che Vinaver è un drammaturgo, che lavorando contemporaneamente come manager di una filiale francese di un’industria multinazionale, viene a contatto con le vicende e i problemi del mondo del lavoro, appassionandosene a tal punto di decidere di farli diventare argomento delle sue pièce teatrali. Ma il punto di vista da lui adottato e soprattutto gli argomenti da lui affrontati, mettono subito in evidenza che il drammaturgo ha voluto parlare nelle sue opere delle situazioni che si creano ogni giorno nel mondo del lavoro, vissute però da parte dei dipendenti delle imprese. Invece, il lavoro svolto dal Teatro Settimo, Camillo: alle radici di un sogno, che per la stesura del testo drammaturgico ha richiesto l’impegno degli stessi aderenti alla compagnia teatrale, non dovendo quindi ricorrere ad un testo scritto da altri drammaturghi, si è voluto mettere in un certo senso dalla parte di chi ha deciso di fare il lavoro di imprenditore, cercando di fare capire agli spettatori cosa abbia voluto significare la realizzazione di un progetto economico all’interno della nostra economia. A parte queste significative differenze, credo che sia l’opera di Vinaver, che il lavoro del Teatro Settimo, possano rappresentare due diversi modelli di ispirazione per quanti vogliano servirsi della drammaturgia e del teatro per fini non puramente artistici ma piuttosto indirizzati al mondo dell’impresa e alle sue problematiche.

 

3.7 L’Action game

Con questa terminologia messa a punto dalla Società di consulenza Forma del Tempo di Bologna1,  si vuole definire una metodologia di sviluppo dell’apprendimento in grado di coniugare e declinare nello stesso setting diverse metodologie didattiche che usualmente i formatori adottano nella loro pratica professionale. Il grande vantaggio di poter collocare nel medesimo plot formativo approcci differenti, consente un’amplificazione emotiva tale da coinvolgere i sentimenti profondi del partecipante, attivandone, in molte circostanze, quella risposta emotiva che rende possibile il processo di cambiamento.

Per capire meglio di cosa si tratti, occorre analizzare il funzionamento di un Action Game.

Il punto di partenza è costituito dalla creazione di un mondo simulato in cui i partecipanti vengono proiettati e che emula nelle dimensioni quantitative, relazionali e situazionali le realtà da cui provengono. Si tratta di un vero gioco di ruolo (come  il business game), in grado di creare una realtà virtuale, in cui i partecipanti sono chiamati ad immedesimarsi , rispetto ad una realtà per loro comune e verosimile, progettando ed interpretando i comportamenti di un Personaggio che è sollecitato a reagire ad una serie di stimoli cognitivi e relazionali che provengono dall’ambiente esterno.

Per la creazione della trama, occorre una raccolta preventiva presso il committente di dati numerici e qualitativi, da parte dello staff che progetta il gioco, al fine di rendere il tutto il più verosimile alla realtà in cui i partecipanti operano.



234 A. ARTAUD, Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino 1968, pp. 3-4.

235 Queste interessanti riflessioni le ho ricavate nel corso di due interviste realizzate tra febbraio e marzo 1999 a Laura Cantarelli, direttrice del centro culturale Euresis di Milano e collaboratrice del prof. Claudio Bernardi, docente di Storia del teatro presso la sede dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Brescia.

236 G. INNOCENTI MALINI, Interazioni teatrali, in C. BERNARDI-B. CUMINETTI (a cura di), L’ora di teatro. Orientamenti europei ed esperienze italiane nelle istituzioni educative, Euresis, Milano 1998, p. 153.

237 D. GOLEMAN, Emotional Intelligence, 1995; trad. it. Intelligenza emotiva. Che cos’è? Perché può renderci felici, Rizzoli, Milano 1996.

 

238 Ibi, pp. 180-199, dove l’autore mostra con particolare enfasi come dirigere oltre che con il cervello, anche con il cuore, dia migliori risultati sia in campo economico sia umano. Quello che egli suggerisce è ad esempio di motivare i propri dipendenti attraverso la pratica di critiche costruttive, che insegnino le persone a crescere, riconoscendo i propri errori ma essendo subito pronte poi a proporre nuove strategie di azione; infatti, continua Goleman, una persona stimolata è più spronata a dare il meglio di sé, mentre chi si sente continuamente aggredito e frustrato, non può che a lungo andare disprezzare il proprio lavoro e di conseguenza farlo male. Per ulteriori esempi e chiarimenti, si vedano le pagine sopra citate.

239 L. CANTARELLI, Materiali. Teatro e terapia: modelli, problemi e prospettive, in C. BERNARDI-L. CANTARELLI, (a cura di), Riti teatrali nelle situazioni di margine, Quaderni dell’Ufficio di Promozione Educatica e Culturale, Provincia di Cremona, Cremona 1995, p. 93.

240 Mi accingo ora ad illustrare brevemente i contributi relativi all’utilizzo della teatro-terapia, rinviando per gli opportuni approfondimenti a CANTARELLI, Materiali…, pp. 93-109, oltre che alle singole opere degli autori che in esso sono menzionati.

241 S. FREUD, Al di là del principio di piacere, in Opere, vol. II, Newton Compton, Roma 1992. Il gioco del rocchetto”, chiamato anche del fort-da, vede impegnato un bambino nel lanciare lontano fino a perderlo di vista un rocchetto legato a un filo per poi regolarmente riavvicinarlo di nuovo a sé. L’oggetto si sottrae al suo sguardo e subito dopo ricompare, esattamente come accade con la madre che si assenta e poi ritorna. Attraverso l’elaborazione del distacco dell’oggetto amato sul piano della rappresentazione, di cui il simbolo non è il rocchetto bensì il gesto di allontanamento e riappropriazione che non si limita alla sola situazione contingente ma investe la globalità del mondo reale, il bambino accetta il trauma della separazione, perché la realtà dell’assenza, controllata e provocata, si afferma proprio in virtù del suo riconoscimento. Proseguendo nelle sua interpretazione, Freud fa anche un’altra importante osservazione:<<Di fronte all’accadimento, egli si trovava all’inizio in posizione passiva, quasi fosse travolto dal suo impatto, ma a furia di ripetere l’esperienza, per quanto sgradevole essa fosse, sotto forma ludica, eccolo assumere un ruolo attivo>>.

242 S. DALLA PALMA, Gioco e teatro nell’orizzonte simbolico, in B. CUMINETTI (a cura di), Educazione e teatro, <<Comunicazioni Sociali>>, VII, Università Cattolica, Milano 1985, pp. 42-43. Per quanto riguarda l’importante legame tra il fare e il dire nei processi evolutivi, si veda l’interessante riflessione in ambito psicanalitico di A. RACALBUTO, Tra il fare e il dire. L’esperienza dell’inconscio e del non verbale in psicanalisi, Raffaello Cortina, Milano 1994, dove l’autore, sottolineando che il corporeo è strettamente legato oltre che al mentale, anche all’inconscio, cerca di curare i propri pazienti, facendo in modo che loro attivino con lui un rapporto diretto, basato sullo scambio fecondo di sentimenti ed emozioni che poi devono essere in qualche modo rappresentati per poter ottenere la cura dei disturbi che li hanno generati, impersonando quasi il ruolo di regista nei confronti dei propri attori.

243 Per un approfondimento del suo pensiero si veda: S. FERENCZI, Fondamenti di psicoanalisi, Guaraldi, Firenze 1972-75, tenendo ben presente che egli è stato il primo studioso a mettere a punto il cosiddetto “metodo attivo”, una tecnica sviluppata tra il 1918 e il 1920, in cui si utilizzava l’azione motoria e la tendenza alla rappresentazione del soggetto per raccogliere e risvegliare nuovo materiale inconscio, spesso utile anche per sbloccare situazioni di stasi dell’analisi.

 

 

244 Per un approfondimento delle sue teorie, si veda: M. KLEIN, I principi psicologici dell’analisi infantile, in Scritti, 1921-1958, Boringhieri, Torino 1978. Per la Klein, il gioco, con i suoi materiali e le sue tecniche, le sue modalità di rappresentazione e le sue interconnessioni, diviene un importante ri-velatore dei contenuti psichici, che si attualizzano per mezzo di un simbolismo arcaico molto simile a quello dei sogni; quindi, possiamo riconoscere che la vita psichica si organizza intorno al rapporto con l’oggetto e dobbiamo a lei il passaggio di prospettiva dall’asse intrapsichico a quello relazionale.

 

245 Per capire meglio il pensiero della Klein, è utile riportare alcune definizioni. Identificazione:<<Processo psicologico con cui un soggetto assimila un aspetto, una proprietà, un attributo di un’altra persona e si trasforma, totalmente o parzialmente, sul modello di quest’ultima. La personalità si costituisce e si differenzia attraverso una serie di identificazioni. […] Incorporazione e introiezione sono prototipi dell’identificazione. […] L’incorporazione è rivolta a cose e la relazione viene confusa con l’oggetto in cui essa si incarna; l’oggetto con cui il bambino intrattiene una relazione aggressiva diventa quasi sostanzialmente “l’oggetto cattivo”, che è allora introiettato>> (J. LAPLANCHE-J. B. PONTALIS, Enciclopedia della psicanalisi, Laterza, Bari 1993, pp. 232-233); introiezione:<<Processo messo in evidenza dall’indagine analitica: il soggetto fa passare, in modo fantasmatico, dal “di fuori” al “di dentro” oggetti e loro qualità>> (Ibi, p. 264); identificazione proiettiva:<<Termine introdotto da Melanie Klein per designare un meccanismo che si traduce in fantasie in cui il soggetto introduce la propria persona totalmente o parzialmente all’interno dell’oggetto per danneggiarlo, possederlo e controllarlo. […] L’identificazione proiettiva appare come una modalità della proiezione. La Klein parla qui di identificazione solo perché è la propria persona che è proiettata>> (Ibi, pp. 236-237).

 

246 Per chiarire meglio questo concetto si veda: D. WINNICOTT, Gioco e realtà, Armando, Roma 1974. Come precisa l’autore, il bambino gioca, solitamente con qualcosa o con qualcuno e ciò che il piccolo tiene fra le mani è sostitutivo di qualche oggetto parziale, ad esempio il seno materno, ma ciò che davvero conta è il suo essere non tanto qualcosa di simbolico ma piuttosto qualcosa di reale. A pagina 30 egli precisa che:<<Il suo non essere il seno (o la madre), per quanto sia un fatto reale, è altrettanto importante come il fatto che esso sta per il seno (o la madre). L’oggetto transizionale sta quindi ad indicare un oggetto materiale che il bambino tiene accanto a sé nei primi mesi di vita e che gli consente di compiere il passaggio dalla relazione empatica con la madre alla relazione oggettuale.

247 Per un approfondimento del pensiero di Moreno, si veda il suo Manuale di Psicodramma. Il teatro come terapia I, Astrolabio, Roma 1985. Come racconta lo stesso Moreno, dopo le prime esperienze di animazione teatrale (1910/1920) condotte a contatto con gruppi di emarginati della periferia di Vienna, fondò nel 1922 il “Teatro della Spontaneità”. Ogni sera, in un piccolo teatro scalcinato, un ristretto gruppo di amici-attori diretti da Moreno metteva in scena drammatizzazioni a canovaccio prendendo spunto dai suggerimenti del pubblico, che in realtà era costituito da una comunità di persone che attraverso la forma drammatica riuscivano a vivere l’emozione di quelle rappresentazioni.

248 In particolare si veda il già menzionato MORENO, Manuale…, alle pp. 91-92, dove l’autore, parlando del significato di psicodramma e di psico-catarsi, come di due concetti contrapposti a quello tradizionale di catarsi espresso da Aristotele nella Poetica a proposito della tragedia, afferma che:<<La base dell’analisi di Aristotele era la tragedia conclusa. Egli tentò di ricavare il significato del teatro dall’effetto che un prodotto portato a temine esercita sulle persone durante la sua rappresentazione. Il terreno sul quale il presente libro fonda le sue analisi del teatro non è un prodotto portato a termine e concluso, ma la realizzazione simultanea e spontanea di un lavoro poetico e drammatico nel suo processo di sviluppo a partire dal suo status nascendi, passo per passo. E secondo questa analisi la catarsi si verifica non solo nel pubblico – effetto questo desiderato solo in seconda istanza – e non nelle dramatis personae di una creazione immaginaria, ma soprattutto negli attori spontanei nel dramma che crea le personae nel momento stesso in cui le aiuta a liberarsi di se stesse. Per approfondire invece la tematica della rivoluzione creativa da lui compiuta si vedano le pp. 95-110 e 150-165 sempre dello stesso libro.

249 Si vedano le loro principali opere: S. LEBOVICI, Terapia Psicoanalitica di gruppo, Feltrinelli, Milano 1980; D. ANZIEU, Lo psicodramma analitico del bambino e dell’adolescente, Astrolabio, Roma 1979; G. LEMOINE-P. LEMOINE, Lo psicodramma, Feltrinelli, Milano 1973; M. BASQUIN-P.DUBUISSON-B. S. LAJEUNESSE-G. TESTEMALE-MONOD, Lo psicodramma. Un approccio psicoanalitico, Borla, Roma 1979; P. BOUR, Lo psicodramma e la vita, Rizzoli, Milano 1973.

250 Per un’analisi dettagliata di questo argomento, rimando al già citato lavoro di CANTARELLI, Materiali…, pp. 100-102 e relative note.

251 Ibi, pp. 101-103.

252 M. DE MARINIS, Il nuovo teatro, Bompiani, Milano 1987, p. 40. Si ricordi che il Living Theatre è nato nel 1947 per iniziativa di Julian Beck e Judith Malina. Dopo i primi anni in cui i due attori si dedicano al teatro, alla letteratura e alla poesia, intorno agli inizi degli anni Sessanta giungono a una prospettiva che rifonda il loro fare teatro.

 

253 Un esempio particolarmente significativo di questo modo di lavorare, è rappresentato dallo spettacolo The Brig del 1964. L’intero gruppo teatrale per potersi preparare al meglio per la riuscita della pièce, dovette lavorare su di un testo durissimo scelto da Judith Malina, Il manuale dei marines. Gli attori dovettero così accettare il “Regolamento della prigione”, che li obbligò a vivere la crudeltà dell’oppressione e della reclusione, per essere poi in grado di trasmetterne tutta la violenza al pubblico, quasi per “contagio”. La peculiarità di questo modo di fare teatro consisteva nel lasciare libera iniziative agli attori, i quali lavoravano senza un testo fisso e definito, al fine di poter liberare tutta la loro creatività ed immaginazione.

254 Con il lavoro di Grotowski, assistiamo alla nascita del Teatro-Laboratorio, in cui assume particolare rilievo il processo di trasformazione (o di rivelazione) delle prove più che la stessa rappresentazione. In questo tipo di teatro la figura dell’attore occupa una posizione centrale, ma non più fondata sulla supremazia della parola e del testo, ma sulla verità del corpo. L’attore è chiamato a compiere un duro lavoro su se stesso, per evitare sia la prostituzione della scena, sia la falsità delle maschere. Per un approfondimento di queste tematiche si veda: J. GROTOWSKI, Per un teatro povero, Bulzoni, Roma 1970.

255 GROTOWSKI, Per un teatro…, p. 55.

 

256 DE MARINIS, Il nuovo…, p. 112. Si ricordi che Marat-Sade è la storia dell’assassinio di Jean-Paul Marat, ucciso da un gruppo di malati mentali del manicomio Charenton, in Francia, dove il marchese de Sade li ha raccolti in una compagnia teatrale.

257 A tal proposito va ricordato che i paesi dove si è avuto un maggiore sviluppo della teatro-terapia sono stati: Francia, Germania, Gran Bretagna e Stati Uniti.

258 A tal proposito si vedano le principali opere degli autori sopra citati: M. LAHAD, Strorymaking: an assessment method for coping with stress, in S. JENNINGS (ed.), Dramatherapy Theory and Practice 2, Routledge, London 1992; A. GERSIE-N. KING, Storymaking in Education and Therapy, Jessica Kingsley, London 1990.

259 R. LANDY, Drama Therapy: Concepts and Practice, Springfield, Illinois 1986.

 

260 Questo modo di fare teatro fa riferimento all’insegnamento della scuole gestaltiana, in cui il teatro è stato introdotto quale strumento terapeutico di grande efficacia; per informazioni più dettagliate si legga l’opera di P. REBILLOT, The Call to Adventure: Bringing the Hero’s Journey to Daily Life, New York 1993.

261 V. TURNER, Antropologia della Performance, Il Mulino, Bologna 1993, p. 285.

 

262 A sottolineare ancora di più la vicinanza tra gioco e teatro, sono le riflessioni del già citato lavoro di DALLA PALMA, Gioco e teatro…, in particolare quelle espresse a p. 47:<<Giocare vuol dire teatrare i conflitti che, nell’atto segnico, si istituiscono tra significati e significanti, assumere una parte, interpretare una parte, mettere parti di sé nell’altro, modulare il proprio corpo secondo il fantasma, così da fornire ad esso il primo linguaggio, la scena e i personaggi dove si rappresentano i drammi originari>>.

263 A CASCETTA, La sfida del corpo sulla scena teatrale, in V. MELCHIORRE-A CASCETTA, Il corpo in scena, Vita e Pensiero, Milano 1983, p. 138.

264 Si vedano in particolare: Per una fenomenologia dell’intenzionalità corporea, in Metacritica dell’eros, Vita e Pensiero, Milano 1979; La corporeità come simbolo, in Il corpo, perché? Saggi sulla struttura corporea della persona, Morcelliana, Brescia 1979. Per un approfondimento di queste tematiche è utile il già citato lavoro di CASCETTA, La sfida…, da p. 138 e segg.

265 CASCETTA, La sfida…, p. 139.

 

266 P. WATZLAWICK-J. H. BEAVIN-D. D. JACKSON, Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio, Roma 1971 e P. L. AMIETTA-S. MAGNANI, Dal gesto al pensiero. Il linguaggio del corpo alle frontiere della mente, Franco Angeli, Milano 1998.

267 AMIETTA-MAGNANI, Dal gesto…, p. 13-24.

268 Gli autori fanno un riferimento chiaro e forte alla disciplina scientifica della Metodologia Operativa, detta anche Terza Cibernetica o Logonica. Si tratta di fatto di una “linguistica operativa” in quanto, risalendo dal linguaggio al pensiero, si propone - tra l’altro - di individuare, analizzare e descrivere le operazioni mentali che ne sono all’origine. Gli autori, pur partendo da questo assunto, ritengono possibile studiare l’attività mentale anche in assenza di espressioni verbali, collegando fra loro il linguaggio, la gestualità e la vita mentale, in un percorso che va dalla gestualità al mentale e viceversa oppure partendo dall’espressione linguistica per indagare le relazioni con quella mentale e gestuale.

269 AMIETTA-MAGNANI, Dal gesto…, p. 172. Per ulteriori informazioni, si vedano le pp. 171-182.

 

 

270 Ibi, p. 189.

 

271 Per ulteriori approfondimenti, si veda: Ibi, pp. 189-198, dove gli autori sottolineano come il lavoro dell’attore poi differisca profondamente da quello che fa ognuno di noi quando recita un ruolo nella vita di tutti i giorni, perché dietro alla sua recitazione vi è in realtà uno studio accurato di tale tecnica. Si pensi, solo per fare un esempio citato dagli stessi, dell’importanza delle riflessioni teoriche di maestri quali Stanislavskij, per aiutare l’attore ad entrare nei panni del personaggio.

272 Per quanto riguarda i riti aziendali e la loro modalità di articolazione, si veda il paragrafo 2.3.2 del cap. II° del presente lavoro. Invece mi preme qui ricordare un esempio del tutto singolare, di impiegare il teatro come drammaturgia dello spettacolo, riferitomi da Laura Cantarelli, nel corso di un’intervista rilasciatami nel febbraio 1999. L’esperienza di cui lei mi ha parlato si riferisce infatti al lavoro teatrale, in questo caso specifico si è trattato di una commedia in vernacolo barese dal titolo La Candine de mbà Giuanne e realizzato nel dicembre 1998 da una compagnia di operai della Manifattura Tabacchi di Bari, al fine di fare della beneficenza per un bambino bisognoso della loro città. L’importanza ravvisata in questo lavoro, che come si può notare è nato con obiettivi del tutto diversi da quelli che muovono l’azienda a contattare una compagnia teatrale per realizzare e rappresentare su loro mandato uno spettacolo con finalità diverse da quelle puramente artistiche, è stata quella, riferita dagli stessi protagonisti, di aver ottenuto, vivendo in prima persona l’esperienza del teatro, dei risvolti esistenziali che non avrebbero mai immaginato. Sono stati gli stessi attori-operai a riconoscere che un progetto, nato quasi per caso, a poco a poco si era trasformato in un evento particolarmente significativo: infatti, nel lavorare in comune per uno stesso scopo, loro stessi avevano iniziato a scoprire valori che forse nella vita lavorativa di tutti i giorni rischiavano di perdere di vista e che invece la pratica teatrale li aveva aiutati a riscoprire. Da questo si evince ancora una volta la potenza trasformativa dell’arte teatrale.

273 In particolare parlerò del lavoro di Teresita Fabris, attrice e insegnante di dizione presso l’Accademia dei Filodrammatici di Milano; dell’esperienza di Romana Garassini, la quale attualmente si occupa di insegnare le tecniche del parlare in pubblico in ambito aziendale, oltre che svolgere tale professione sia nel campo della politica sia in quello della televisione e del lavoro di un attore, Pierpaolo Nizzola, tra le cui diverse esperienze di collaborazione con le aziende vi è stata anche quella di insegnare le tecniche di public speaking.

274 Si ricordino a tal proposito le riflessioni fatte da Pasquale Gagliardi, in occasione del già menzionato seminario Riflessioni sull’antropologia…, p. 5, in cui l’autore sottolineava l’importanza della formazione aziendale realizzata soprattutto al di fuori dell’azienda, in quanto permetteva una preparazione il più possibile interculturale e non legata ai vincoli dell’impresa stessa. Inoltre, l’autore riconosceva l’importanza dello strumento teatrale, evidenziandone già il suo ampio uso nelle tecniche di formazione.

275 U. MORELLI-C. WEBER, Passione e apprendimento. Formazione-intervento: teoria, metodo, esperienze, Raffaello Cortina, Milano 1996.

276 Per quanto riguarda le responsabilità e la professionalità del formatore, sono particolarmente significative le riflessioni fattemi da Laura Cantarelli, in occasione della già menzionata intervista rilasciatami nel febbraio 1999. Come lei stessa riferisce a proposito del suo lavoro di formatore in azienda, quando si svolgono degli interventi volti al cambiamento in ambito relazionale, ci si scontra inevitabilmente con il gruppo dirigente che ha commissionato tale incarico; infatti, può capitare o che l’impresa voglia ottenere dall’intervento degli obiettivi, solitamente legati a risolvere problemi di relazione di gruppo o di motivazione del personale, con degli strumenti che il formatore non condivide, oppure accade che l’azienda ignori le valenze inconsce che l’intervento da lei richiesto può nascondere e quindi il formatore deve decidere se farle emergere attraverso un lavoro di scavo psicologico. In ogni caso, si deve riconoscere che spetta sempre alla deontologia professionale del formatore decidere come intervenire e secondo quali modalità, tenendo sempre presente che quando un professionista entra in azienda deve venire incontro alle esigenze di chi l’ha chiamato per quel tipo di lavoro, altrimenti la richiesta viene meno.

277 In particolare si vedano i capitoli II° e III°, (con maggiore attenzione a quest’ultimo dove vengono riferite le teorie a cui gli autori si rifanno). Mi preme qui ricordare: K. Lewin, per l’importanza della conoscenza intesa come cambiamento e azione e la formazione quindi basata sulla collaborazione feconda dei soggetti che vi partecipano; E. H. Schein e K. E. Weick per quanto concerne la rilevanza dei contributi che può fornire il lavoro di gruppo e le situazioni più ambigue per capire e risolvere i diversi problemi che le hanno generate; ancora Weick ed anche G. P. Quaglino, per evidenziare come la formazione risulti efficace se sa tenere conto della situazione di contingenza nella quale agisce e dei diversi punti di vista dei soggetti che vi partecipano, riconoscendo di avere a che fare con un procedimento complesso in cui essa ha dei precisi limiti che vanno sempre tenuti presente per agire in modo corretto. Per le relative opere, si veda l’ampia bibliografia fornita dagli autori da pag. 167 a pag. 171. Un interessante contributo, di matrice più terapeutica, ma altrettanto significativo di questo modo di fare formazione e di curare soprattutto persone con problemi comunicazionali e non solo, è rappresentato da G. NARDONE-P. WATZLAWICK, L’arte del cambiamento, GEE, Firenze 1990, in cui gli autori ribadiscono che il loro modo di operare è di tipo strategico: è necessario curare il problema nella situazione concreta in cui si verifica e poi farlo diventare bagaglio cognitivo del soggetto, a differenza del metodo psicoterapeutico tradizionale, basato sulla convinzione che il lavoro del terapeuta, per curare il problema del paziente, deve entrare prima nei meccanismi della sua psiche. Nel loro modo di fare psicoterapia, gli autori propongono degli interventi inusuali, basati soprattutto sui giochi, i paradossi e piccoli imbrogli che consentono al soggetto in cura di liberare le proprie inibizioni, senza esserne inizialmente consapevole.

278 G. DE CARO, La comunicazione degli affetti nella formazione (prima parte), Personale e Lavoro, n. 372, Gennaio 1994, pp. 24-25.

279 L’autore mette bene in evidenza come le emozioni scelgano dei canali preferenziali per comunicarsi, precisando subito dopo, però, che i due canali principali di manifestazione dei sentimenti sono quello verbale e quello non verbale. L’autore poi fa notare come il linguaggio e, quindi, il canale verbale siano però inadeguati a tale compito, perché l’espressione linguistica non riesce a rendere ragione della ricchezza e dell’infinità delle emozioni; quindi esse tendono a prediligere altri canali, soprattutto non verbali, come ad esempio quello mimico, gestuale o postulare. Infatti, continua l’autore, sembrerebbe che le emozioni negative preferiscano utilizzare l’espressione del volto, in particolare la parte sinistra di esso, mentre risulterebbe più controverso il ruolo della parte destra. Per ulteriori precisazioni si veda: Ibi, pp. 23-24.

280 Per quanto riguarda le diverse matrici teoriche sottese a questa pratica, si veda il bel lavoro di S. CAPRANICO, Role playing. Manuale a uso di formatori e insegnanti, Raffaello Cortina, Milano 1997, in particolare le pp.1-33, in cui l’autore elenca in una completa sintesi i diversi contributi che hanno permesso il nascere del role playing. Partendo dallo psicodramma moreniano da cui esso trae origine per poi differenziarsi a causa degli obiettivi non strettamente terapeutici che il role playing si prefigge, possiamo poi riconoscere l’influenza del teatro come pratica della simulazione e del gioco e le teorie dell’interpretazione dei ruoli, implicite nel pensiero di Goffman, Mead, Parsons e Linton. Per quanto riguarda l’importanza della componente ludica anche in questa pratica si ricordino i già menzionati contributi di Freud e Winnicott, di cui ho già ampiamente parlato in precedenza e che sono riconosciuti come elementi basilari anche dallo stesso Capranico. Per gli approfondimenti necessari rinvio alle pagine sopra citate.

 

281 Ibi, pp. 40-49.

 

282 Ibi, p. 51.

 

283 Capranico avverte però che l’utilizzo della registrazione deve essere fatto con molta attenzione e parsimonia; infatti, esso può anche procurare dei seri svantaggi. Primo fra tutti vi è quello di avere paura e inibizione da parte dei partecipanti nei confronti della telecamera o del registratore, causando in loro un atteggiamento di eccessivo controllo delle proprie emozioni; secondariamente la registrazione effettuata con la telecamera prevede l’impiego di un tecnico, il cameraman, estraneo al seminario ed anche questo può avere un effetto disturbante; infine bisogna riconoscere che il lavoro di registrazione prevede il riascolto che, se non preceduto da una puntualizzazione scritta dei momenti più salienti del corso, può avere un’azione fuorviante nei confronti del tutto.

284 Ibi, p. 55. L’autore tende a precisare, che per condurre ed imparare a svolgere un role playing, occorre oltre alla preparazione accademica e agli studi delle scienze sociali, soprattutto l’esperienza fatta in prima persona, avendo partecipato in precedenza a questo tipo di pratica.

285 Capranico suggerisce a tal proposito alcuni giochetti che si praticano nella fase di warning up; si tratta o di brevi scenette da recitare, caratterizzate dal fatto di essere scelte da chi dirige e di essere banali e semplici, oppure di scenette dimostrative recitate dal formatore e dagli assistenti, per fare vedere agli altri ciò che poi dovranno fare, chiedendogli eventualmente di commentarle, esprimendo così il proprio parere; altri tipi di riscaldamento possono essere ad esempio il gioco della sedia vuota, in cui i partecipanti devono dire chi immaginino di vedere seduti su di essa e che ruolo occupa questa persona, facendo così scattare il gioco oppure simile ad esso, il gioco della bottega magica, in cui ognuno racconta cosa immagina che essa contenga, il tutto preceduto da un’introduzione, un po’ ludica e un po’ teatrale, del direttore o di un suo assistente. Altri tipi di giochi prendono spunto dai racconti personali di esperienze particolari vissute dai partecipanti o di favole da essi suggerite, il tutto finalizzato a consentire il miglior avvio del gioco e ad agevolare i partecipanti ad entrare nella situazione e nel ruolo che dovranno poi recitare. Per ulteriori precisazioni, si veda: Ibi, pp. 59-65.

 

 

 

 

 

 

 

286 Per un approfondimento di queste tecniche e del loro utilizzo, si veda: Ibi, pp. 65-73.

 

287 A. A SCHUTZENBERGER, Trattato di psicodramma, Martinelli, Firenze 1972, cit. in CAPRANICO, Role playing…, p. 86.

288 CAPRANICO, Role playing…, p. 52 e pp. 91-94.

 

289 D. DEMETRIO, Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé, Raffaello Cortina, Milano 1996. Si pensi solo per citarne alcune, alle Memorie di poeti e filosofi come Orazio, Seneca, Cicerone o alle Confessioni di Sant’Agostino. L’intervento di Demetrio può essere visto in relazione a quello dei drammi terapeutici di Lahad o Gersie di cui ho parlato nella parta relativa alla teatro-terapia, anche se esso rappresenta un tentativo italiano del tutto autonomo dal loro.

290 Ibi, p. 82 e segg.

291 Per la spiegazione del pensiero di Winnicott, rinvio al paragrafo 3.1 relativo alle teorie del gioco, in cui esso è ampiamente trattato.

 

292 DEMETRIO, Raccontarsi…, pp. 194-195.

 

293 Ibi, p. 210 e p. 207.

 

294 Mi riferisco all’esperienza di Laura Cantarelli, la quale opera in questo settore da alcuni anni e di cui riferirò ampiamente il lavoro svolto, nella parte relativa alle esperienze concrete italiane.

295 L’esperienza qui riportata è il frutto di un’intervista rilasciatami da Teresita Fabris, nel febbraio 1999. Formatasi con il teatro tradizionale, avendo recitato anche al fianco di attori dal calibro di Gassman, in veste di prima donna, abbandona presto questo ambiente, perché dice lei<<[…] era pieno di invidie e gelosie e la mia inclinazione era rivolta soprattutto allo studio, avendo l’ambizione di sfruttare le conoscenze apprese dal modo del teatro per diventare un’operatrice culturale>>. Dopo diverse esperienze teatrali all’estero e soprattutto in Italia, dove si occupa prevalentemente di recitare poesie di Montale e Quasimodo, abbandona l’ambiente teatrale e decide di andare ad insegnare in una scuola di periferia a Cinisello Balsamo, in provincia di Milano. Qui entra in contatto con una realtà di degrado ed emarginazione: infatti, i bambini a cui deve insegnare sono figli di detenuti, con situazioni familiari a rischio e per questo manifestano gravi disturbi della comunicazione, addirittura uno di questi a causa di uno choc non riesce a parlare. Attraverso una serie di giochi sui colori e sulle parole, ma soprattutto grazie alla sua sensibilità e pazienza, ella riesce a mettere i bambini nella condizione di aprirsi e comunicare con lei, riuscendo anche a farsi raccontare le dolorose storie della propria infanzia. Il successo è sbalorditivo: anche il bambino che sembrava muto, inizia a parlare. Abbandonata anche questa significativa esperienza, ritorna all’attività teatrale, con un interesse però prevalentemente sperimentale; infatti, diventa una delle fondatrici del teatro Trebbo di Milano, dove per sedici anni si occupa di studiare e insegnare la parola e le regole della corretta dizione. Per altri dieci anni poi, indirizza le sue abilità attorali per la realizzazione di spettacoli teatrali itineranti per le scuole Medie Superiori, incentrati sulla resistenza. Seguono quindi le esperienze alla radio e alla televisione, dove per altri dieci anni si occupa di doppiaggio. In seguito entra all’Accademia dei Filodrammatici di Milano, dove attualmente insegna dizione. Parallelamente al lavoro in Accademia, la Fabris si è occupata di insegnare a parlare e a correggere i difetti di pronuncia di alcuni bambini sordastri e dislessici; questa esperienza, come lei stessa ci riferisce, l’ha coinvolta pienamente, dandole molta soddisfazione ed ottimi risultati.

 

 

 

296 T. FABRIS, Professione comunicatore, Guide Trend, Arnoldo Mondadori, Milano 1997.

 

297 Per quanto concerne la carriera professionale di Teresita Fabris e le esperienze da lei avute, rimando alla nota n. 295, dove ho cercato di darne un sunto il più possibile esauriente. Invece qui mi interessa riferire, come mi fa ha fatto notare la stessa Fabris nel corso dell’intervista di cui ho parlato in precedenza, che tra i suoi clienti, oltre a manager e dirigenti, c’è stato anche un giornalista di canale cinque, che soffriva di balbuzie; questo è significativo per farci capire come le tecniche di espressione teatrale possano essere impiegate in svariati campi, al fine di aiutare l’individuo ad acquisire la consapevolezza dei propri mezzi.

298 Mi riferisco sempre alla già citata intervista di cui ho parlato nella nota n. 295.

299 Le osservazioni che farò nel proseguo del paragrafo sul modo di lavorare della Garassini, sono state ricavate dal seminario dal titolo Metodiche didattiche e processi formativi per l’impresa, svoltosi il 12 aprile 1999 presso la Scuola di Specializzazione in Gestione della Comunicazione dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Ai fini del mio studio, riporterò in questa sede solo l’esperienza che lei ha svolto e svolge tuttora come consulente in comunicazione per l’impresa, precisando però che la Garassini si occupa di estendere la sua professione ad altri ambiti diversi da quello aziendale, insegnando le tecniche di public speaking anche a politici e personaggi del mondo della televisione. La sua carriera artistica inizia presso la Scuola d’arte Drammatica del Piccolo Teatro di Milano, dove lavora accanto a Giorgio Strehler, che diverrà il suo maestro. Dopo avervi conseguito il diploma, decide di lasciare il teatro per svolgere la sua professione di attrice e presentatrice alla RAI; qui resta per alcuni anni, occupandosi fra le altre cose di organizzare programmi culturali, di curare le pubbliche relazioni e gli uffici stampa. Proprio in occasione della preparazione di un’iniziativa promozionale per un programma che si doveva occupare di problemi sociosanitari e venendo a contatto con professionisti di questo settore, nota immediatamente le loro difficoltà di esprimere in modo corretto ed efficace i propri contenuti, per mezzo di una forma il più possibile confacente a rappresentare le idee di persone così preparate nel proprio lavoro. Dopo questa esperienza costituisce un Centro per la Didattica e la Comunicazione professionale, in cui si insegnavano le tecniche oratorie e non artistiche a tutti coloro che ne avessero avuto bisogno; per realizzare il suo progetto, la Garassini si affiancò a dei finanziatori interessati all’iniziativa e scelse degli insegnanti anche dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Come riferisce la Garassini, il lavoro del Centro Studi Comunicazione, che rappresenta il primo Istituto sorto in Italia e finalizzato alla studio della comunicazione professionale, ha rappresentato una tappa particolarmente significativa per la propria crescita e maturazione professionale. Attraverso le più svariate lezioni di comunicazione, mediazione, leadership o neurolinguistica, solo per citarne alcune, tenute dai docenti dell’Istituto, la Garassini dice di essere riuscita a perfezionare le proprie competenze e ad averne acquisite di nuove, al punto di decidere, dopo circa nove anni di lavoro, di cedere il proprio marchio ad una multinazionale straniera e di iniziare questa professione come libero consulente per l’azienda, lavoro che continua oggi a svolgere con successo e soddisfazione.

300 A tal proposito è la Garassini stessa a suggerire la lettura di alcuni articoli utili per capire cosa significhi oggi svolgere la professione di consulente; si leggano pertanto: G. FIRRAO, Il consulente imprenditore di se stesso, <<Dirigenti Industria>>, 30 gennaio 1999; F. BUTERA, Il business vola sulle ali delle Pmi, <<Il Sole 24 Ore-Rapporti>>, 12 febbraio 1999; C. ANTONELLI, Un identikit professionale sempre più dettagliato, <<Il Sole 24 Ore-Rapporti>>, 12 febbraio 1999; M. LIBELLI, Le Pmi a caccia di concretezza, <<Il Sole 24 Ore>>, 12 febbraio 1999.

301 Si tenga presente, come riferisce la Garassini, che il mondo aziendale non rappresenta però un campo facile di applicazione delle tecniche teatrali per finalità di tipo umano e psicologico, perché spesso le aziende investono, ancora oggi, in Italia, poche risorse nell’ambito della formazione umana dell’individuo, indispensabile invece per pretendere da lui un buon rendimento professionale.

302 A chi fosse interessato ad approfondire le modalità di insegnamento e applicazione delle tecniche del parlare in pubblico spiegate in questo paragrafo, si vedano, oltre al già citato FABRIS, Professione…, anche: E. LANZA, I riti della comunicazione, Sperling & Kupfer, Milano 1990, in particolare da p. 58 e segg., dove l’autrice spiega le modalità di recitazione utilizzate da manager e dirigenti nei momenti che li vedono essere protagonisti della diffusione dell’immagine aziendale (come ad esempio durante i cosiddetti “riti aziendali”, quali sono le Convention o le feste aziendali) e S. MAGNANI, Comunicare a teatro, Omega Edizioni, Torino 1991; per quanto riguarda poi l’importanza della comunicazione gestuale, accanto a quella verbale, si vedano: D. MORRIS, L’uomo e i suoi gesti. L’osservazione del comportamento umano, Arnoldo Mondadori, Milano 1990 e il già citato AMIETTA-MAGNANI, Dal gesto

303 Le informazioni relative all’esperienza che mi appresto a descrivere sono state ricavate da un’intervista realizzata da me a Pierpaolo Nizzola, nel febbraio 1999. La sua carriera professionale inizia presso la compagnia di Grock, la quale prende il nome dal famoso clown svizzero Adrien Wettach, in arte Grock, che fin da giovane si dedicò al music-hall e al circo conquistandosi una grande notorietà per le capacità mimiche e acrobatiche in numeri comici a soggetto musicale. In questa compagnia, specializzata soprattutto in corsi di mimo e di comicità, Nizzola studia le tecniche comiche per diventare attore, lavorando con personaggi quali Maurizio Nichetti, Osvaldo Salvi ed Enrico Grazioli, decidendo alla fine dell’anno di restare come precario. Nel 1977 si laurea in Filosofia, continuando a praticare la recitazione attraverso degli stage ed un corso specifico presso un centro teatrale di Milano. Seguono poi l’esperienza della televisione, qualche doppiaggio ed un anno di lavoro nel campo della pubblicità.

304 L’esperienza vissuta da Laura Cantarelli, la quale dirige la società culturale Euresis e che ringrazio vivamente per avermi permesso di parlarne nel mio lavoro, l’ho ricavata da un’intervista da lei concessami nel marzo 1999 e che qui ho deciso di riportare interamente, omettendo però per motivi di privacy sia i nomi delle aziende in questione, sia le notizie strettamente riservate relative ai propri prodotti o alle tecniche di vendita che esse utilizzano.

305 Nel primo caso il testo, dal titolo è stato scritto per te, è stato realizzato da Alessandra Ghiglione, assistente di Storia del teatro, presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. La recitazione è stata affidata ad unico attore, Roberto Anglisani, mentre la scenografia è stata realizzata da Marcello Chiarenza.

306 Per quanto riguarda il secondo esempio qui riportato, bisogna ricordare che il testo è stato scritto dalla stessa Laura Cantarelli e recitato anche in questo caso da un unico attore, Silvio Castiglioni.

 

307 Le parole di Laura Cantarelli qui riportate, sono state ricavate dall’intervista già citata alla nota n. 304, rilasciatami da lei stessa.

308 Dell’opera di Michel Vivaver, drammaturgo francese a noi contemporaneo, parlerò più dettagliatamente nel paragrafo 3.4.2, soffermandomi in particolare ad analizzare una pièce che fa parte dell’opera drammaturgica Teatro Minimale, dal titolo La demande d’emploi, (La domanda d’impiego) e a mio parere particolarmente significativa sia per le tematiche affrontate, sia per l’originale drammaturgia elaborata dall’autore, che con il suo teatro ha voluto scardinare le modalità convenzionali della drammaturgia tradizionale.