Drammatizzare l'impresa: breve
storia sull'utilizzo dello strumento teatrale nel mondo del lavoro
Teatro e mondo del lavoro: i primi approcci
3.1: Le metodiche d’intervento: il
quadro teorico di riferimento.
Se
facciamo un teatro non è per rappresentare lavori, ma per riuscire a far
in modo che quanto c’è di oscuro nello spirito, di occultato, di
irrivelato, si manifesti in una specie di proiezione materiale, reale. Non ci
proponiamo, come è stato fatto finora, com’è sempre stato
richiesto al teatro, di dare l’illusione di ciò che non è;
ma al contrario, di far apparire agli sguardi un certo numero di scene, di
immagini indistruttibili, incontestabili che parlino direttamente allo spirito.
[…] Concepiamo il teatro come una vera operazione di magia. Non ci
rivolgiamo agli occhi, né all’emozione diretta dell’anima;
quello che cerchiamo di suscitare è una certa emozione psicologica, in
cui saranno messi a nudo gl’impulsi più segreti del cuore234.
Con
il suo provocatorio Manifesto per un
teatro abortito, scritto l’8 gennaio 1927, Artaud voleva segnare una
drastica rottura tra il suo modo di concepire il teatro, ossia di intenderlo in
maniera del tutto nuova ed opposta, rispetto a quello tradizionale, ancora
imbrigliato in convenzioni e schemi prefissati.
Il suo obiettivo era quello di realizzare, attraverso un atto
rivoluzionario, un cambiamento forte del teatro, il che, in un certo senso,
significava volerlo riportare alle sue origini, alla magia dei gesti
dell’uomo che parlano all’uomo, che riscoprono il senso originario
degli atti spirituali e dell’anima: stiamo parlando di un teatro il cui
obiettivo è quello di dare parola anche al cuore.
Pur dovendo riconoscere l’arditezza di questi pensieri e
soprattutto la loro complessità, quello che mi sembra ancora oggi valga
la pena di sottolineare del messaggio di Artaud consiste nella sua
capacità e volontà di dare al teatro uno statuto in grado di
differenziarlo positivamente dalle altre forme artistiche, conferendogli un
elevato valore euristico che esula dal semplice portare in scena uno spettacolo
e divertire un pubblico.
Infatti, nonostante le suggestioni evocate da Artaud possano
apparirci come allucinazioni di un visionario, il suo messaggio però
è di una lucidità disarmante: occorre riscoprire
l’efficacia dello strumento teatrale, la sua capacità di provocare
emozioni forti che colpiscano direttamente l’anima dell’uomo,
costringendolo ad una trasformazione personale che lo inviti a mettere in
discussione le sue certezze e ad affrontare anche le sue paure.
Proprio il modo di pensare espresso da Artaud, ossia di
intendere il teatro come un bene “necessario” per
l’individuo, un prezioso strumento di aiuto per risolvere le problematiche
umane e non invece solo come un piacevole mezzo di divertimento capace di
allietare le persone nei momenti in cui ritengono di averne più bisogno,
stimola a volerlo impiegare anche in un ambito che solitamente gli è
estraneo, ossia quello della realtà aziendale.
In particolare due caratteristiche tipicamente legate al teatro
sono essenziali per capire la sua specificità rispetto ad altre forme
mediatiche e per legittimare la sua vocazione ad essere impiegato in campi
diversi da quello della recitazione fine a se stessa: sto parlando
dell’importanza che la componente ludica e quella della gestualità
rivestono per la realizzazione degli scopi che esso si prefigge.
Cercherò
adesso di dimostrare proprio come attraverso l’uso di queste
peculiarità il teatro riesca ad entrare anche nella realtà
dell’impresa, apportandovi il suo specifico contributo.
Ma andiamo con ordine; innanzitutto bisogna riconoscere che
ciò che differenzia il teatro dagli altri riti culturali e dagli altri
media, è sicuramente il fatto di intrattenere una relazione del tutto
particolare con il gioco, non un gioco qualsiasi, ma semmai uno del tutto
singolare: quello della vita.
Infatti il teatro rappresenta il gioco esemplare dal quale
discendono poi tutti gli altri giochi; esso è allo stesso tempo il gioco
del corpo, della relazione, il gioco sociale e proprio questo permette allo
spettatore che va oggi a teatro di assistere, non semplicemente ad un grande
spettacolo o di identificarsi in un personaggio ma piuttosto di vedere come
giocano gli attori più bravi ed imparare poi da loro a fare anche lui la
stessa cosa nella vita reale, per trovare altri con cui giocare, spazi in cui
divertirsi a creare, tempi in cui gioire delle proprie capacità.
Come il mondo teatrale, così la vita è in molti momenti
un gioco drammatico, in cui si esce spesso sconfitti o umiliati. Ma è
sempre un gioco. Incerto nel suo esito, appassionante o noioso, da vivere da
protagonisti o da comparse, con finale tragico o comico, in cui si è
applauditi o fischiati dagli altri, in tutti i casi l’unica
“azione” che ti fa sentire vivo.
Proprio la peculiarità del teatro di consentire a chi se
ne serve di poter partecipare in anteprima al gioco della vita, lo fa essere
una sorta di palestra, una forma di sperimentazione dove poter verificare il
proprio potenziale vitale, dove incontrare parti del sé, rappresentarle
in una situazione protetta che si dona all’altro e che quindi cerca un
confronto fondativo rispetto alla propria identità; ci troviamo di
fronte ad una dimensione del “come se”, della prova,
dell’ipotesi ma che comunque non può mai prescindere
dall’azione e quindi dall’affrontarne le conseguenze.
Ecco perché il fare teatro rimane sempre un gesto
concreto ed autentico, che esige decisione e consapevolezza da parte di chi lo
pratica; proprio come l’attore di teatro, il quale ha un tempo per le
prove e uno spazio per i tentativi e gli errori, ma poi, durante lo spettacolo,
deve assolutamente riuscire ad essere credibile davanti allo sguardo del
pubblico implacabile, così nella vita reale ci sono le prove, i
tentativi e gli errori, ma poi ci sono i comportamenti, i gesti e le parole per
i quali siamo chiamati ad assumere una responsabilità effettiva235.
Come riconosce bene Giulia Innocenti Malini, <<[…]
l’esperienza teatrale, in quanto tale, permette l’avvicinamento
all’altro non solo attraverso una comprensione, più o meno
razionale, del suo essere, ma anche attraverso la possibilità di
rappresentarlo, di riconoscere sé e le proprie emozioni in questa
situazione, di incontrare l’altro sperimentando il suo vissuto e, dunque,
sviluppando una relazione di tipo empatico>> ed ancora <<[…]
l’altro di cui si parla non è necessariamente un altro reale,
può essere un ruolo, o un eroe moderno, o un’età della
vita. Questo incontro avviene nel luogo protetto del “come se”,
dove ciò che succede non ha effetti reali incontrollabili, pur
mantenendo un fondamentale valore sperimentale capace di accrescere la
percezione della realtà e la competenza emotiva>>236.
Si tratta quindi di vedere nello strumento teatrale anche la sua
peculiare valenza educativa, cioè la sua capacità di stimolare
l’individuo ad un corretto uso delle emozioni che gli permetta di vivere
meglio le relazioni con gli altri esseri umani.
In un momento storico com’è il nostro, dominato da
crisi ed incertezze, è indispensabile recuperare quel senso di
civiltà che ci permetta di rapportarci agli altri con sentimenti di
attenzione e di premura che ormai sembriamo avere messo da parte, come oggetti
dimenticati.
A tal proposito ci è utile il suggerimento di Daniel
Goleman, che nel suo recente libro, ci spiega che cosa significhi sviluppare
l’intelligenza emotiva237;
riprendendo le riflessioni di Aristotele espresse nell’Etica Nicomachea, l’autore insiste
sull’opportunità di portare l’intelligenza dentro le nostre
emozioni, definendola per questo intelligenza emotiva, per aiutarci a
controllarle e a dosarle nei momenti in cui ci troviamo a vivere situazioni
particolarmente difficili che, se non affrontate con saggezza, potrebbero
minare la nostra stabilità.
Quindi,
occorre un calibrato dosaggio delle emozioni per affrontare serenamente la vita
sociale, perché è proprio attraverso di esse che noi entriamo in
contatto con gli altri esseri umani, comunicando la parte più intima di
noi stessi, che spesso non riusciamo a mostrare se non per mezzo dei nostri
sentimenti.
Il meccanismo di empatia realizzato dal teatro diventa pertanto
un aiuto fondamentale per l’individuo affinché sbloccando le sue
emozioni, riesca poi però ad indirizzarle e ad incanalarle in modo
corretto verso gli obiettivi che vuole realizzare.
Si tratta di poter scorgere l’utilità di questo
metodo in ogni ambito della vita umana che ci pone in relazione agli altri; in
particolare, continua Goleman, possiamo applicarlo nella realtà
lavorativa, dove troppo spesso le emozioni incontrollate generano situazioni
critiche238.
Infatti, come suggerisce l’autore, è importante
applicare l’intelligenza emotiva anche nella vita lavorativa,
contribuendo a creare quello che lui chiama <<buon senso
aziendale>>, ovvero aiutare le persone a lavorare bene ed in modo
armonioso in gruppo, realizzando una serie di aspettative condivise, supportate
da una comunicazione autentica che passi attraverso delle emozioni vere e sapientemente
calibrate; dall’altro stimolare la dirigenza a gestire i rapporti con il
proprio personale impostati prevalentemente sull’ascolto e sulla
capacità di decifrare i messaggi talvolta impliciti che si nascondono
dietro le emozioni che loro comunicano.
Proprio la caratteristica del teatro di essere allo stesso tempo
il luogo dove la finzione ed il gioco acquistano veridicità dal momento
che sono in grado di creare un flusso di emozioni sia da parte di chi
interpreta la rappresentazione, sia per chi vi assiste, hanno indotto negli
ultimi trent’anni parecchi studiosi di psicanalisi e anche alcuni teorici
del teatro, ad utilizzare le pratiche del teatro per fare terapia, vedendo
<<[…] nel fare teatrale,
non un fare qualsiasi, ma un fare espressivo, un agire la comunicazione in un setting
diverso da quello della situazione duale che propone la tradizionale
psicoanalisi>>239.
è utile a questo punto
ripercorrere a grandi linee i più significativi contributi che hanno
condotto il teatro dentro i luoghi del disagio e hanno posto alle pratiche
terapeutiche la questione relativa all’utilizzo della teatralità
come risorsa per l’intervento, tenendo ben presente che non essendo il
mio uno studio specifico solo sulla teatro-terapia, sono stata costretta ad
operare delle scelte arbitrarie, rispetto al vasto materiale disponibile, che
mi permettessero comunque di mettere in evidenza alcuni nodi tematici a mio
avviso esemplari240.
Il punto di partenza di questo discorso è rappresentato
dall’intuizione freudiana, espressa nella descrizione del “gioco
del rocchetto” in Al di là
del principio di piacere241, dove
egli vede nell’esperienza della perdita la nascita dei processi di
rappresentazione, interrogandosi così sul significato che il gioco
ricopre nell’orizzonte simbolico dell’uomo.
Infatti, dallo studio condotto da Freud sull’influenza del
gioco sull’attività simbolica del bambino, emerge
un’importante verità; in realtà, il bambino, attraverso le
dinamiche tipiche del gioco, passerebbe dalla posizione passiva assunta
inizialmente nei confronti di una situazione nuova e inaspettata, a quella
attiva, conseguente al continuo ripetersi di un’esperienza, che pur
sgradevole, con il passare del tempo iniziava da lui ad essere accettata ed in
qualche modo interiorizzata, ancora prima della nascita
dell’attività simbolica e del linguaggio. Pertanto, analizzando la
sua esperienza ludica ci si troverebbe di fronte ad un differente modo
dell’agire comunicativo: nel rapporto con la madre il bambino passerebbe
dalle funzioni biologiche a quelle relazionali.
Come fa notare Sisto Dalla Palma, <<[…] tale
esperienza è possibile perché il gioco è innanzitutto
un’azione mimetica che vive nelle membra di chi la agisce. Il corpo del
bambino è la mediazione tra il significato e il significante, tra il
desiderio e l’impossibilità di realizzarlo. è il luogo in cui si organizza
la rappresentazione della mancanza e si realizza il meccanismo di risposta che
la rende sopportabile. Il teatro consacra il processo di evocazione di
un’assenza e di elaborazione attraverso lo spostamento della meta del
desiderio. La scena teatrale diviene il luogo della maschera che nasconde e nel
contempo offre la possibilità di svelare ciò che cela. è il luogo della ripetizione e
del ritrovamento del significato originario. Si propone come modello riparativo
ed esperienza della ri-creazione. Essa è anche soprattutto il luogo
dell’incarnazione, intendendo con tale termine richiamare la
centralità del vissuto corporeo nel processo rappresentazionale>>242.
Ma nonostante tali riflessioni mettano in primo piano
l’importanza del corpo in azione come luogo dello scacco e del riscatto,
questa fondamentale evidenza rimane del tutto marginale nell’impianto
terapeutico freudiano, il quale si fonda sulla parola e sulla relazione duale
tra medico e paziente.
A raccogliere in parte l’eredità del maestro, dando
maggior attenzione alla scena del corpo, è uno dei suoi allievi: Sandor
Ferenczi243.
Il
nodo centrale della sua riflessione ruota intorno al concetto di
“rappresentazione drammatica”; infatti, secondo l’autore,
quando il mondo esterno rivela la non possibilità o la non
volontà che i desideri trovino immediata soddisfazione, gli investimenti
allucinatori operati dal senso di onnipotenza non sono più sufficienti
al bambino che attraverso la “rappresentazione drammatica” quale
stadio evoluto del linguaggio gestuale, mira al soddisfacimento dei bisogni,
che nel loro evolversi verso stadi di sempre maggiore complessità
portano al linguaggio simbolico e alla rappresentazione cosciente.
Per Ferenczi sia il linguaggio verbale sia quello gestuale si
fondano sull’originaria perdita del ventre materno, lo spazio e il tempo
in cui un bisogno veniva soddisfatto senza che venisse desiderato o richiesto;
si fondano quindi su una mancanza che diviene invocazione verso un Altro. Il
gesto e la parola hanno una comune origine che si fonda sulla
reciprocità fra attività motoria e desiderio nella ripetizione e
che giustifica l’uso dell’azione nelle terapie analitiche, senza
che questo comporti necessariamente una forma di liberazione catartica.
Sempre nell’ambito di un riconoscimento delle valenze
diagnostiche e degli effetti dell’agire del paziente, è di
capitale importanza anche l’opera di Melanie Klein, costretta a ricorrere
a strumenti non verbali per interpretare e risolvere i traumi dei bambini244.
Secondo
la Klein, il bambino costruisce la propria identità psichica attraverso
l’assimilazione di attributi e qualità di “oggetti
esterni” e attraverso il rigetto verso l’esterno di ciò che
rifiuta. In una complessa organizzazione psichica fondata sui processi di
identificazione introiettiva e di identificazione proiettiva245, in cui il campo da gioco è la
scena di una rappresentazione dei conflitti fra le parti, l’adulto
può non solo ricavare informazioni dal fare del bambino-attore, ma
può strutturare il proprio intervento in termini teatrali.
Grazie all’attribuzione di ruoli, sia a cose sia a
persone, i meccanismi introiettivi e proiettivi dell’identificazione
vengono scardinati e possono essere sperimentati secondo nuove modalità
che potrebbero mutarne gli esiti; proprio il fatto che la scomposizione delle
identificazioni agisca in un conflitto la cui proiezione è volta
all’esterno, diminuisce la tensione interna e permette che le molteplici
soluzioni possibili possano essere verificate concretamente.
La centralità della relazione è ulteriormente
ribadita nel lavoro di Donald Winnicott, con l’introduzione del concetto
di “area transizionale”. Come l’autore precisa, essa si
struttura mediante <<l’oggetto transizionale>>, che si
configura come l’elemento di transizione che struttura l’esperienza
dell’illusione, che non appartiene solo alla primissima infanzia, ma che
in modi e forme diverse ritornerà nel corso della vita246. Pertanto, possiamo considerare
l’area transizionale come quello spazio in cui si gioca la relazione,
ossia come il medium attraverso il quale sono possibili i passaggi dal soggetto
all’oggetto, dall’interno all’esterno, dal fantastico al
reale.
Winnicott infine propone un’ipotesi terapeutica che
utilizzi un setting che ripristini
l’esperienza transizionale, come se essa rappresentasse quella zona
franca e neutra dove ha luogo la relazione giocata.
Dal quadro fin qui elaborato sono emersi interessanti spunti di
riflessione intorno al problema dell’uso in terapia del fare, del metodo attivo, del gioco,
della relazione. Ma gli autori sopra citati si muovevano ancora nel rapporto
duale tra paziente e analista, anche se, rispetto ai metodi tradizionali, viene
data particolare enfasi al materiale che i soggetti in cura costruiscono
mediante azioni e rappresentazioni che li vedono essere protagonisti in prima
persona.
Chi invece si è dichiarato in netta opposizione nei
confronti dell’impianto psicoanalitico, scardinando completamente i
presupposti teorico-metodologici dell’elaborazione freudiana è
stato Jacob Levi Moreno247.
Attraverso la pratica della “spontaneità”
tipica del suo modo di fare teatro, Moreno individuò un possibile valore
terapeutico dell’esperienza dell’improvvisazione teatrale; lo
psicodramma moreniano, denominato “classico” per distinguerlo dai
modelli che si sono poi ispirati al suo, è una tecnica psicoterapeutica
che si allontana da qualsiasi formulazione di stampo psicanalitico per il
rifiuto totale dell’esistenza della divisione fra conscio, preconscio e
inconscio. Moreno ribadisce l’unità dell’individuo e agisce
sul suo comportamento, sull’azione drammatizzata nel “qui e
ora” del gruppo. Essere se stessi è l’unica regola che
governa il patto tra il conduttore e i partecipanti. Ciascuno è chiamato
a esteriorizzare e condividere il proprio vissuto attraverso la
rappresentazione di scene via via più significative, siano esse
fantastiche o reali. Gli elementi di una seduta sono la scena, il protagonista,
il conduttore, gli io ausiliari e l’uditorio; dopo una prima fase di
riscaldamento, emerge la storia di un singolo, di volta in volta diverso, che
grazie alla guida del terapeuta ri-vive per la seconda volta una porzione di
vissuto, aiutato, per le parti funzionali alla rappresentazione, dagli altri membri
del gruppo che a seconda delle necessità lasciano la posizione di
spettatori. In fase finale il gruppo è chiamato a condividere
l’accaduto, attraverso il sentire del conduttore che guida la seduta per
mezzo di tecniche differenti, non per interpretarlo però, ma solo per
esprimere il raggiungimento della catarsi delle emozioni. Presupposti di tale
lavoro sono la spontaneità e il tele,
la corrente affettiva a due sensi che governa le relazioni248.
Nonostante si debba riconoscere a Moreno il grande merito di
aver aperto la strada, di aver intuito, con molto anticipo sui tempi, i nodi
cruciali che ancora oggi sono al centro del dibattito e della riflessione
intorno alle tematiche della teatro-terapia, il suo metodo però viene
spesso accusato di aver lasciato aperto molte aporie, soprattutto per quanto
riguarda i temi del corpo, del testo, del personaggio e della conduzione: a non
convincere gli studiosi di tali materia sono i rapporti fra regia, drammaturgia
e attori, o meglio fra conduttore, testo e partecipanti.
In particolare, in campo analitico, chi ha riconosciuto il
potenziale del dispositivo teatrale all’interno del setting terapeutico ha messo in evidenza i limiti dello psicodramma
classico derivanti dall’esclusione totale di qualsiasi cognizione di
stampo psicoanalitico o psicodinamico. In questo settore c’è stata
quindi l’accettazione della tecnica moreniana e il rifiuto della sua
teoria psicodrammatica.
La
scuola psicoanalitica, nata sul finire degli anni quaranta, pur non rinnegando
la paternità di Moreno, ha sviluppato modelli differenti sulla base
delle matrici psicoanalitiche di riferimento. I primi esponenti dello
psicodramma analitico sono stati i francesi: Lebovici, Anzieu, Lemoine, Basquin
e Bour249.
L’obiezione principale degli analisti ruota intorno al
problema dell’inconscio. Il metodo catartico di Moreno non convince
affatto poiché non porta ad alcuna significativa trasformazione delle
strutture psichiche. I concetti chiave dello psicodramma analitico sono i
meccanismi di identificazione per i partecipanti e di transfert per i
conduttori, mentre alla rappresentazione viene applicata la tecnica
dell’interpretazione. L’importante differenza delle due scuole
consiste nel fatto che per gli psicanalisti francesi è necessario che si
ingaggino giochi di identificazione all’interno dei quali possano
innestarsi le dinamiche transferali perché l’immaginario
rappresentato possa essere sottoposto a interpretazione. Il contatto fisico è
proibito.
Sulla scia del modello francese, in contrapposizione
all’impianto concettuale di Moreno, si sono sviluppati diversi modelli
teorici - freudiano, adleriano, reichiano, junghiano, lacaniano – diffusi
in diverse aree geografiche, ma in particolare in Francia, Germania, Inghilterra,
Stati Uniti e Argentina250.
Particolarmente
interessanti sono le riflessioni condotte dai coniugi Lemoine, di scuola
lacaniana, soprattutto perché aprono un varco sulle questioni relative
alla nascita dei processi simbolici e alla necessità della relazione. Lo
psicodramma si configura per loro come una sorta di incontro mancato che prende
vita sulla scena ad opera del soggetto, spinto a rivivere qualcosa che
già una volta è stato motivo di fallimento; tale ripetizione
è molto più importante del piacere che egli ne può
ricavare fino a divenire una necessità e il gioco è determinato
da una coazione a ripetere che allontana l’uomo dal piacere e lo avvicina
piuttosto al dolore.
Ma a differenza della scena originaria, la positività del
processo psicodrammatico si gioca sul fatto di dover avvenire di fronte ad
altri, di fronte ad un gruppo. Lo sguardo dell’altro nella dinamica
rappresentazionale è il principale punto di riferimento per il soggetto
che nella relazione percepisce se stesso dal punto di vista dell’altro
come corpo. Ed è proprio lo sguardo che trasforma la ripetizione in
rappresentazione. Il discorso del soggetto viene sezionato nei suoi particolari
più significativi che cominciano a circolare nel gruppo. Sotto lo
sguardo degli altri il soggetto tenta di ricomporre il suo corpo spezzettato
dandogli una nuova unità attraverso il ruolo.
Quindi, la differenza principale tra lo psicodramma e la
psicanalisi si fonda sulla categoria dello sguardo, messo in evidenza mediante
la pratica del lavoro di gruppo; ma nonostante la sua fondamentale innovazione
rispetto allo psicodramma faccia intravedere le possibili riflessioni relative
alla funzione dello sguardo dell’Altro sulla dimensione corporea, poi
però finisce per negare di fatto la corporeità stessa251.
Invece chi ha fatto della corporeità l’elemento
essenziale per proporre una pratica rivoluzionaria che potesse essere
indirizzata anche alla terapia, è stata la stessa comunicazione
teatrale, grazie alla testimonianza di tre grandi esperienze profondamente
diverse fra loro: il Living Theatre di Julian Beck e Judith Malina, il Teatro
povero di Grotowski e il lavoro teatrale Marat-Sade
di Peter Brook.
Per capire meglio i propositi perseguiti dal Linving Theatre, ci
sono particolarmente utili le riflessioni di De Marinis:<<[…]
secondo i Beck, Artaud coglie qui la funzione fondamentale della scena
(additando così, nello stesso tempo, la soluzione del problema
spettatore): distruggere la violenza mediante la sua rappresentazione, ovvero,
detto altrimenti, esorcizzare la violenza per mezzo della violenza
teatrale>>252.
Riprendendo i contenuti del testo di Artaud, Il teatro e il suo doppio, il Living
tradusse l’idea in esso contenuta in un impegno che era sia artistico che
sociale e politico; il teatro poteva così intervenire sulla
realtà grazie alla sua forza e alla sua potenza evocatrice.
Un tale modo di fare teatro, che è stato definito come il
teatro dell’Intelletto e della Crudeltà, della Forma e della
Sommossa, del Caso e dell’Intenzione, è essenzialmente costituito
dall’inscindibile unione di pensiero e carne, parola e corpo, fantasia e
realtà ma soprattutto è rappresentato dal desiderio continuo dei
componenti del gruppo di nutrirsi, per “fare teatro”, soprattutto
nei periodi di allestimento dello spettacolo, dell’esperienza totale e
radicale, in grado di coinvolgere tutte le parti dell’essere253.
L’obiettivo di Grotowski254era
invece quello di realizzare un teatro inteso non come palestra ma come spazio
che permettesse all’attore, al centro del suo modo di concepire il lavoro
teatrale, attraverso un percorso di autopenetrazione fondato sulla disciplina e
l’offerta del sé, di ottenere uno stato di coscienza e
consapevolezza rispetto al proprio limite; il regista a tal proposito parlava
di “atto totale”, definendolo così:<<[Alludo] alla
più intima essenza del mestiere di un attore, una reazione che gli
consenta di svelare uno dopo l’altro i diversi strati della sua
personalità, partendo dalla fonte biologica istintiva, attraverso il
canale della consapevolezza e del pensiero, fino a quel vertice, così
difficile da definire, dove tutto si fonde in un’unità. Questo
atto di rivelazione totale del proprio essere diventa un dono
dell’individuo che confina con la trasgressione di ogni barriera e con
l’amore. Io definisco questo un atto totale>>255.
Una
terza tappa esemplare all’interno del nostro campo di indagine è
rappresentata dallo spettacolo Marat-Sade
di Peter Weiss, messo in scena nel 1964 da Peter Brook.
Come fa notare il De Marinis:<<[…] il testo di Weiss
era dunque un’occasione per tentare una prima realizzazione di quel
teatro immediato verso cui muove ormai, decisamente, la ricerca di Brook
[…], cioè un “teatro totale”, che sia, nello stesso
tempo, teatro di disturbo e di choc (come ieri quello di Artaud e, oggi, quello
di Beckett, del Living o dell’happening) ma anche di affermazione (come
quello di Brecht), insomma un teatro che coniughi gli opposti [...] in una
forma di espressione il più possibile partecipe della globalità
della vita stessa>>256.
Quindi possiamo riconoscere che lo spettacolo di Brook, dominato
dalla suggestione e dalla tensione scatenata dai temi, pervaso da una forte
dose di violenza nelle immagini, nel linguaggio e nelle situazioni
rappresentate, ha sicuramente segnato un punto di riferimento per numerosi
operatori che si sono mossi nell’area della psichiatria.
In ogni caso dobbiamo constatare che il dato che sembra
ricorrere nelle esperienze del teatro degli anni Sessanta e di cui qui sono
state riportate solo alcune testimonianze significative, è quello di una
ricerca che conduca ad un’esperienza in grado di coniugare ogni aspetto
dell’esistenza umana, ponendosi allo stesso tempo come punto di rottura e
di cambiamento.
Stiamo
parlando di un tipo di teatro che comincia ad entrare nei luoghi dell’emarginazione,
non solo come spettacolo, ma soprattutto come pratica diretta, al fine di
trasformare l’evento teatrale in esperienza esistenziale, là dove
sono venuti a mancare i dispositivi relazionali che riconoscono all’uomo
la propria dimensione umana.
Ma superate le sperimentazioni degli anni Sessanta, dopo gli
entusiasmi degli anni Settanta e dopo i tentativi di sistematizzazione teorica
degli anni Ottanta, si verifica oggi uno stato di fermento intellettuale
intorno alle tematiche scottanti delle terapie a matrice creativo-espressiva.
Il dato nuovo e rilevante, è che questo movimento non cerca più
lo scontro con l’istituzione, ma piuttosto il dialogo al fine di trovare
una via di cooperazione, senza per questo obbligare il teatro
all’omologazione.
Compiendo una rapida ricognizione all’interno di
esperienze condotte in area europea e angloamericana257, dove lo sviluppo della
teatro-terapia ha avuto molto più successo che in Italia e dove sono
sorte delle vere e proprie scuole di formazione a livello universitario che
fanno capo a centri di ricerca organizzati anche sul piano delle pratiche e
dell’inserimento professionale degli operatori, possiamo evidenziare
quattro differenti modelli di applicazione.
-Un primo esempio di questo modo di fare teatro-terapia è
rappresentato dalla drammatizzazione terapeutica; essa utilizza le storie di
vita dei pazienti come anche i miti, le leggende, le fiabe popolari e la
letteratura. Secondo un approccio di tipo narrativo, il terapeuta concentra la
sua attenzione soprattutto sulle modalità del racconto, non tanto sui
contenuti.
Uno dei principali rappresentanti del modello, Mooli Lahad,
sottolinea la valenza diagnostica della storia riportata ai fini di una
sistematica individuazione delle possibilità reali del paziente di far
fronte ai problemi quotidiani. Compito del terapeuta è svelare le
potenzialità perché possano essere utilizzate in modo positivo e
costruttivo; attraverso l’uso della tecnica di storymaking ciascuno può giungere a progettare una propria
storia basandosi su quegli elementi che sono emersi nel racconto di miti e
leggende. Solitamente è il terapeuta a fornire uno schema narrativo con
funzione di griglia.
Se Lahad prevede nelle sue sedute un personaggio principale, che
ha una missione o un obiettivo da raggiungere, un aiutante, una
difficoltà da superare, le strategie per affrontarlo e una soluzione,
invece Gersiew, altro esponente della dramma-terapia, propone nelle sue sedute
uno spazio ameno, un personaggio principale, un ostacolo, un portatore d’aiuto
e una risoluzione.
Secondo l’ottica psicodinamica sono utilissimi i testi
letterari classici e la storia diviene una tecnica proiettiva o metaforica per
i membri del gruppo che possono esplorare il proprio mondo fantastico258.
Un secondo modello di intervento è basato sulla teoria
dei ruoli, che vede l’individuo come un attore che assume molteplici
ruoli di tipo biologico, familiare, professionale e sociale nella vita
quotidiana. Lo scopo terapeutico è quello di aiutare il paziente a
incrementare il numero di ruoli e di copioni posseduti rendendo flessibile il
passaggio dall’uno all’altro ed evitando che avvengano meccanismi
di stereotipizzazione o fissazione. L’accento è posto sulle parti
sane del soggetto ed il successo è raggiunto nel momento in cui
l’individuo riconosce l’esistenza ed il significato di una risorsa
scoperta nell’assunzione di un ruolo inconsueto. I testi principali sono
quelli di Moreno e di Goffman, il riferimento tecnico è alle pratiche
dei giochi di relazione e di ruolo che hanno trovato ampio sviluppo soprattutto
negli Stati Uniti all’interno dei moduli di formazione.
Un esponente importante di questo modello è lo
statunitense Robert Landy, che applica le tecniche di dramatherapy nei gruppi, utilizzandole in relazione al lavoro sul
personaggio nella costruzione di una drammaturgia collettiva259.
Per quanto riguarda la realtà italiana, su esempio
dell’esperienza statunitense, nell’ultimo decennio è
cresciuta notevolmente l’applicazione delle tecniche dei giochi di ruoli
nel campo della formazione aziendale e professionale. Visto l’importanza
di questo tema ai fini del mio studio, ne parlerò più
dettagliatamente nel corso di questo paragrafo, quando la illustrerò
come una delle diverse modalità di utilizzo dello strumento teatrale nella
realtà aziendale.
Un terzo
modello di teatro-terapia è rappresentato dall’approccio
antropologico; a partire dall’influenza dell’opera di Grotowski,
è stata postulata la terapeuticità intrinseca dell’agire
teatrale in virtù delle prerogative di autopenetrazione
dell’attore grotowskiano. In questo modo di fare teatro-terapia è
molto importante la figura del terapeuta che viene ad essere una sorta di
sciamano in grado di liberare, attraverso il rito, il sé
dell’attore. Questa esperienza, che risente molto delle pratiche
religiose delle popolazioni indiane, africane e dei nativi d’America,
è basata sulla messa in atto di rappresentazioni e teatralizzazioni,
attuate attraverso l’inversione dei ruoli, al fine di ottenere un rituale
di purificazione.
Le critiche a questo modo di operare sono numerose, soprattutto
perché esso sembra dimenticare la centralità dell’azione di
rappresentazione dei propri vissuti, ma esso si difende dicendo che
l’intervento diretto del terapeuta viene sentito come intrusivo e invasivo,
perciò egli spesso è costretto a recitare la parte dei suoi
pazienti per ottenere dei risultati.
Uno dei principali esponenti di questa corrente è Paul
Rebillot di San Francisco260.
Un ultimo
modo di fare teatro-terapia, non per questo meno importante, è
rappresentato dai modelli a matrice teatrale che si fondano direttamente sul
sapere teatrale che eredita le riflessioni di registi, attori e drammaturghi
della seconda metà del secolo. Stanislavskij, Grotowski, Barba e le
avanguardie storiche rappresentano i principali punti di riferimento che, in
base alle differenze dei metodi elaborati sul lavoro dell’attore, hanno
diversamente influenzato le pratiche terapeutiche. Tra i modelli di matrice
teatrale si possono distinguere tre differenti scuole: creativo-espressiva, task-centered e psicoterapeutica. La
prima prende le mosse dalle esperienze di animazione teatrale e si pone quale
obiettivo principale il raggiungimento di un risultato spettacolare;
l’arte è considerata terapeutica in sé e la
creatività ne è il principale strumento. La seconda è
più legata alle teorie comportamentiste americane, mirate alla soluzione
dei problemi attraverso modificazioni dell’atteggiamento. Si compone di
esercizi di relazione e si struttura, più che sulla rappresentazione,
sulla simulazione di ruoli possibili. La terza invece pone al centro
dell’intervento il processo evolutivo del gruppo e dei singoli, prendendo
le mosse dalle elaborazioni teoriche della psicoanalisi e della psicodinamica.
Le diverse scuole sembrano tutte accomunate però
dall’idea di utilizzare il potere trasformativo del gioco per permettere
che attraverso il “come se” della rappresentazione, si realizzi un
cambiamento concreto e reale all’interno del soggetto che vi partecipa;
già Victor Turner aveva riconosciuto che:<<[…] può
accadere che un modello leggero, nato per gioco, di vita o strutturazione
sociale, giudicato un tempo stravagante, in condizioni di estremo cambiamento
sociale si riveli un adattabile schema di vita al “modo
indicativo”>>261.
Infatti crediamo che la potenza insita nello strumento teatrale
consista nella possibilità data all’attore e al pubblico di
percorrere una strada liberi dall’incidenza che le azioni e i sentimenti
possono avere sul reale del quotidiano, ma disponibili a lasciarsi mutare nella
coscienza da quelle stesse azioni e quegli stessi sentimenti; bisogna
assolutamente ricordare, come è emerso dall’analisi appena
condotta, che tra gioco e teatro vi è un legame inscindibile, tale da
permettere a quest’ultimo di poter essere utilizzato come strumento di
risoluzione di problemi e conflitti, permettendo all’individuo di non
sentirsi gravato dall’esito di ciò che sta facendo, in quanto fin dall’inizio
egli è consapevole di aver preso parte ad un’esperienza ludica ma
non per questo di ininfluente esito262.
La componente del gioco però rappresenta una sola delle
due caratteristiche che ho ritenuto essere distintive della modalità
teatrale in funzione di una sua possibile applicazione nella realtà
aziendale; tuttavia un altro aspetto molto importante non va sottovalutato
quando si viene a contatto con le pratiche teatrali: sto parlando della
funzione della gestualità.
Come è emerso dalla precedente analisi, sono soprattutto
le esperienze teatrali a noi contemporanee, a partire dagli anni Sessanta e
Settanta fino ad arrivare ai tentativi dei gruppi sperimentali
d’avanguardia dei giorni nostri, a puntare maggiormente
l’attenzione sull’espressività dell’attore che si
realizza mediante un complesso lavoro incentrato sulla corporeità e
sulla gestualità.
L’intento comune di questi lavori è stato quello di
ribadire la peculiarità del teatro, per troppo tempo trascurata
all’interno della nostra tradizione occidentale che l’ha sempre
identificata con il testo drammatico, quella cioè di essere
<<[…] il luogo privilegiato del corpo, dove appunto il corpo
dell’attore in carne ed ossa agisce in uno spazio di contiguità
fisica con lo spazio dello spettatore e in un tempo per entrambi sincronico>>263.
Infatti, se crediamo nella capacità comunicativa dello
strumento teatrale, non possiamo dimenticare che la gestualità ha un
potere molto più forte della parola, perché riesce ad esprimere,
ad esempio solo attraverso un gesto o un movimento, sentimenti o pensieri che
appartengono alla parte più profonda di un individuo e che spesso egli
nasconde per incapacità o per vergogna di esprimerli a parole.
Questa è un’evidente verità che possiamo
riscontrare nella vita di tutti i giorni; ognuno di noi si è trovato
spesso in situazioni in cui o non è riuscito ad esprimere quello che
sentiva dentro e quindi è ricorso ai comportamenti gestuali, o si
è trovato dalla parte di chi ha dovuto interpretare i gesti che un altro
individuo gli ha mostrato.
Proprio la comunicazione gestuale ed il suo particolare modo di
esprimersi hanno interessato non solo i teorici del teatro ma anche gli
studiosi di altre discipline, entrambi desiderosi di comprendere le
modalità e le finalità attraverso le quali essa si sviluppa.
Per quanto riguarda la nostra concezione della corporeità
e della gestualità in ambito teatrale, dobbiamo subito riconoscere
l’importanza che il contributo del pensiero fenomenologico ha segnato in
questo campo.
L’assunto da cui partire è rappresentato dal lavoro
di Virgilio Melchiorre264, in
cui il comportamento gestuale è considerato in un nesso strutturale con
quello conoscitivo; secondo l’autore il corpo è radice di ogni
prospettiva, “mediazione” di conoscenza e quindi non impaccio,
cioè, e condizione da trascendere, ma <<figura originaria>>,
che rende possibile la conoscenza, se è vero che questa passa con uguale
dignità attraverso le “intenzioni”, quelle più
propriamente rappresentative a cui la tradizione ha riconosciuto in modo
esclusivo la prerogativa di atti conoscitivi e di unica costituzione del
significato, e quelle del sentimento, della gioia, dell’angoscia, del
timore. Del desiderio, del dubbio, della tensione religiosa, del giudizio
[…] a cui la speculazione fenomenologica ha rivendicato la dignità
di una peculiare “apertura di conoscenza”, di una originale
produzione di significati non riducibili a sfumature o ad attributi di
precedenti predicati, e che si esprimono in tutto lo spettro degli
atteggiamenti attraverso cui il corpo trascende la pura dimensione biologica,
in tutta l’articolazione del suo linguaggio.
Se quindi il teatro in cui crediamo ha rivaluto il gesto del
corpo, il quale è inteso come simbolo <<[…] al punto in cui
si colloca nella duplicità del ricordo e della profezia, del regresso e
del progresso, del solipsismo della produzione del desiderio e della
fertilità comunicativa della cultura, che oppone alla tentazione del
nulla e dell’assurdo la sfida dell’essere e del senso, alla
cecità del piacere la trasparenza del logos>>265, per
altre vie e campi di analisi non strettamente legati al teatro, è emersa
comunque la valenza conoscitiva della gestualità.
In
particolare mi voglio riferire a due contributi diversi fra loro, sia per
matrici teoriche sia per la distanza temporale che li separa, ma che possono
essere visti in un rapporto di relazione reciproca, poiché risultano
entrambi utili a confermare quanto sto dicendo: sto parlando del lavoro di
Watzlawick sul comportamento umano e di quello di Amietta-Magnani sulla conoscenza
gestuale266.
Per quanto riguarda lo studio condotto da Watzlawick e
collaboratori, la comunicazione rappresenta la conditio sine qua non della
vita umana e dell’ordinamento sociale, ogni essere umano è
coinvolto fin dall’inizio della sua esistenza in un complesso processo di
acquisizione di regole della comunicazione, ma di tali regole e del loro
funzionamento è consapevole solo in parte.
Secondo tali studiosi è molto interessante studiare gli
effetti pragmatici (comportamentali) che la comunicazione ha
sull’individuo, perché attraverso di essi si possono capire anche
gli eventuali disturbi che egli nasconde, al fine di poterli guarire.
Infatti, l’individuo è inserito in una complessa
rete di relazioni, che egli intrattiene con il sistema nel quale opera e che
sono basate appunto sulla comunicazione; non esiste pertanto un non comunicare,
perché dietro ad ogni comportamento è sempre nascosto un
messaggio, un’informazione e quindi una comunicazione.
Bisognerà prestare particolare attenzione allo svolgersi
dell’interazione, cioè lo scambio di messaggi fra i comunicanti,
perché essa può avvenire in due modi diversi: o quello numerico,
cioè attraverso le parole, o quello analogico, in cui hanno particolare
valore i gesti, le espressioni del viso e via dicendo, tenendo ben presente che
spesso la seconda modalità non è stata tenuta in giusta
considerazione, perché la si considerava una comunicazione di tipo non
verbale che per essere studiata andava interpretata sempre con categorie di
riferimento tipicamente verbali.
Da questa critica parte il lavoro di Amietta-Magnani267; i due autori vogliono compiere una
ricerca davvero stimolante, ossia si propongono di considerare la conoscenza
come un insieme complesso fatto di intelligenza, creatività,
immaginazione e quindi non come qualcosa dotato solo di razionalità, ma
piuttosto legato anche alla pratica, al comportamento e alla gestualità.
A loro interessa studiare la gestualità da un punto di
vista positivo, non come una conoscenza complementare a quella verbale, ma
cercando di analizzarla come l’espressione di operazioni e categorie
mentali in chiave pre-linguistica. Il loro studio è partito dalla
comunicazione gestuale per poi risalire alle operazioni mentali che vi stavano
dietro.
La caratteristica fondamentale di questa comunicazione, di
essere cioè analogica e diacronica, ha messo in luce la potenza insita
nel gesto la cui peculiarità sta nell’essere assolutamente
volontario; per poter rappresentare quindi una delle esperienze più significative
della vita mentale, così pensano gli autori rifacendosi per questo ai
contributi teorici della metodologia operativa, esso deve essere generato da
una operazione mentale268.
Il
lavoro di questi due autori è particolarmente utile, oltre che per ribadire
l’importanza della comunicazione gestuale come forma di conoscenza, anche
per vedere le possibili relazioni che esistono fra di essa ed il nostro studio
teatrale; a tal proposito mi sembra doveroso sottolineare lo sforzo compiuto
dagli studiosi per indagare, da un lato i rapporti fra gioco e lavoro,
dall’altro per approfondire l’atteggiamento tipico della
rappresentazione teatrale, meglio definito “animus teatrandi”.
Per quanto riguarda la suggestiva relazione tra gioco e lavoro,
Amietta e Magnani tengono subito a precisare che non esistono situazioni di
lavoro o di gioco precostituite e giudicate uguali per tutti e in tutte le
circostanze, ma piuttosto essi sono due ambiti mentali che dipendono dalle
condizioni generali da cui vengono guardati; siamo noi che attribuiamo la
qualità di lavoro o di gioco, quali due nostre possibili alternative di
libertà mentale, a qualsiasi attività mentale che possiamo
intraprendere, nessuna esclusa.
Infatti, <<[…] ogni volta che noi svolgiamo non
importa quale attività entriamo in uno di questi atteggiamenti ed il
risultato non può essere che, rispettivamente, di “gioco” o
di “lavoro” indipendentemente dalla natura
dell’attività. La quale potrebbe essere addirittura identica nei
due casi>>269.
Per
quanto riguarda invece l’atteggiamento tipico della rappresentazione
teatrale, esso ci serve per capire meglio la gestualità che sta dietro a
tale finzione; lo scopo degli autori è dimostrare come la finzione che
si cela dietro la recitazione teatrale, sia profondamente diversa dalla
menzogna.
Infatti quando una persona mente, la gestualità che lo
accompagna evidenza uno stato di disagio, perché nel mentire il soggetto
è obbligato a operare una scissione tra il sé (che aderisce al
pensiero taciuto) e il comportamento che si manifesta pubblicamente; il suo
mentire è fatto per ingannare gli altri e la frattura che si verifica
tra il soggetto ed il suo comportamento rende faticosa la falsificazione e la
grava della necessità di un attento autocontrollo che, <<[…]
mentre produce ciò che voglio sembrare, nega e umilia ciò che
sono>>270.
Ben diverso è l’atteggiamento che è sotteso
alla finzione; infatti fingere non obbliga alla doppiezza, per fingere si
abbandona una realtà, uno stato dell’io per calarsi in
un’altra e diversa realtà, stato dell’io, al quale si
dà vita con il proprio corpo e la propria voce. Poiché fingendo
lascio momentaneamente la mia individualità, per abbracciarne
un’altra, che comunque faccio mia e alla quale totalmente aderisco,
(anche se per poco), non provo sensazione di disagio o doppiezza, quanto
piuttosto fatica, nel caso che la parte che mi sono proposta sia troppo
distante dalla mia realtà umana. Nella recitazione, in particolare il
soggetto portante è messo fra parentesi, mentre il ruolo viene assunto
dall’altro; il primo soggetto resta in disparte, anche in veste di
controllore-supervisore (almeno nell’attore professionale), mentre
l’altro, come si suole dire con un’espressione efficace,
“entra nei panni del personaggio”; nella recitazione assistiamo ad
un unico pensiero con due soggetti, di cui l’attenzione è rivolta
al personaggio: per questo si può dire che la recitazione è
l’opposto della menzogna271.
Queste riflessioni ci possono essere molto utili per spiegare
anche i comportamenti degli individui in azienda, poiché la vita
organizzativa è costituita da soggetti impegnati a rappresentare dei
ruoli e quindi conoscerne in anticipo le dinamiche comportamentali, è
indispensabile per gestire problemi e conflitti che possono nascere dalle
interazioni di essi.
Pertanto, come illustrerò nel paragrafo a seguire, una
delle possibili modalità di intervento teatrale in azienda è
rappresentata dall’ambito della formazione, la quale per altro si serve
di dinamiche di interazione costituite dai role
playing, la cui efficacia risiede nella teoria ludica dei ruoli.
3.2: Le possibili metodiche di intervento
teatrale in azienda.
L’ampia
parentesi teorica fin qui affrontata è stata indispensabile per fornire
al mio lavoro un quadro teorico e fondativo di riferimento. Diventa adesso
importante specificare quali modalità di intervento teatrale possono
essere applicate alla realtà aziendale, compatibilmente ai bisogni e
alle strutture di quest’ultima.
A tal proposito possiamo dividere i diversi tipi di intervento
in:
1)
il teatro come drammaturgia dello spettacolo,
che va a segnare i momenti clou
dell’azienda;
2)
l’utilizzo delle tecniche espressive e
teatrali solitamente impiegate nella preparazione attorale e qui invece usate
per aiutare manager e dirigenti a ricoprire al meglio il proprio ruolo;
3)
la formazione aziendale, supportata da
metodologie teatrali;
4)
la drammaturgia scritta e ideata appositamente
per l’azienda.
Nei paragrafi successivi cercherò di spiegare come si
articolano e in che cosa consistano le diverse modalità di intervento
teatrale.
3.2.1: Il teatro come drammaturgia dello
spettacolo.
Per
quanto riguarda il primo modo di intervenire nell’organizzazione,
dobbiamo subito precisare che esso si basa sulla valenza creativo-espressiva
tipica del teatro; attraverso la messa in scena di uno spettacolo teatrale,
solitamente inserito all’interno delle feste aziendali (quali possono
essere ad esempio la festa di Natale, le Convention
o il family day) si vuole raggiungere
un risultato spettacolare perché si crede nella valenza terapeutica
dell’arte in se stessa e nello strumento creativo quale miglior mezzo di
riuscita di tale obiettivo.
Quasi sempre è l’azienda ad incaricare la compagnia
teatrale di scegliere e rappresentare uno spettacolo secondo le modalità
che ritiene più opportune, avendole però commissionato in
precedenza, durante il cosiddetto brief,
gli obiettivi che essa voleva realizzare attraverso tale messa in scena.
In realtà, questa libertà di espressione concessa
agli organizzatori teatrali è giustificata dal fatto che lo spettacolo
va ad inserirsi all’interno di un particolare rito aziendale, che
è già strutturato secondo regole teatrali ben precise e risponde
a determinati bisogni esclusivamente aziendali272.
3.2.2: Public speaking.
Per
quanto riguarda invece il secondo metodo di intervento, bisogna subito rilevare
che esso è molto richiesto in azienda, soprattutto da parte di manager e
dirigenti. Infatti, spesso, questi individui lamentano la capacità di
saper parlare correttamente e di riuscire a muoversi in modo opportuno di
fronte ad un pubblico che si trova lì per ascoltarli. In questo caso le
tecniche espressive teatrali, tra cui ricordiamo l’importanza
fondamentale della dizione ma anche quella della gestualità, dimostrano
tutta la loro efficacia per aiutare a risolvere questi tipi di problemi; anche
in questo caso è l’azienda, o addirittura i singoli individui che
necessitano di questo intervento. Sono proprio manager e dirigenti, a
rivolgersi ad attori professionisti o a compagnie teatrali e a chiedere attraverso
un ciclo di lezioni pratiche, (che possono avvenire sia all’interno
dell’organizzazione sia all’esterno, cioè in sedi specifiche
dove lavorano i professionisti, a seconda delle disponibilità dei
committenti), di poter colmare le loro lacune, imparando delle tecniche di cui
poi sapranno disporre per tutta la vita.
Nel paragrafo relativo alle esperienze italiane parlerò
più dettagliatamente di questo tipo di intervento teatrale, basandomi su
tre differenti testimonianze di persone che operano in questo campo e cercando
di mettere in evidenza il metodo da loro usato nell’insegnare le tecniche
del parlare in pubblico273.
3.2.3: Formazione aziendale: role playing
e autobiografia.
Per
quanto concerne l’ambito della formazione aziendale, bisogna subito
riconoscere che questo è un settore molto sviluppato e ricercato dalle
imprese, le quali tendono oggi ad investire molto sulla formazione dei propri
dipendenti, sia attraverso stage
tenuti al di fuori dell’azienda stessa, sia soprattutto con corsi di preparazione
umana e professionale realizzati a suo interno274.
La mutata situazione economica, causata dalla globalizzazione e
mondializzazione dei mercati, ha costretto le aziende a doversi circondare di
collaboratori, oltre che capaci professionalmente, soprattutto in grado di
sfruttare le proprie doti individuali e creative per affrontare compiti sempre
diversi da quelli abitudinari, trovandosi poi responsabili in prima persona
delle scelte fatte e dei risultati conseguiti.
Per ottenere quindi personale sempre più competente e
motivato professionalmente, le aziende decidono di servirsi dell’arma
della formazione; essa però non si limita solo ad intervenire per
migliorare le capacità delle persone, me soprattutto può essere
impiegata per risolvere situazioni in cui vi siano problemi e disagi.
Fare formazione però rappresenta un compito molto
delicato; infatti, chi si occupa di questo lavoro deve possedere delle doti
umane e professionali non comuni in tutti gli individui, in quanto bisogna
sempre tenere presente che si lavora, non con dati o macchine ma con persone in
carne ed ossa, ognuna diversa dall’altra e per questo da trattare in modo
specifico ed opportuno.
Come suggeriscono Ugo Morelli e Carla Weber, nel loro recente
libro su tale argomento275, la
riuscita dell’intervento formativo si misura in base
all’apprendimento conseguito dai partecipanti; per ottenere perciò
un successo sarà necessario valutare, durante la formazione, tutto
ciò che si verifica in concreto nella messa in atto di tale
procedimento.
Infatti, l’obiettivo degli autori è quello di
mettere in discussione il metodo tradizionale della scienza, basato sulla
convinzione che vi sia un’unica verità ed un unico metodo valido
per tutte le circostanze; in realtà, continuano gli autori, la conoscenza
deve essere intesa come un continuo processo di costruzione ed interpretazione
da parte dei soggetti che vi prendono parte. Questo modo di procedere è
soprattutto valido quando si ha a che fare con la formazione, dove ci si trova
di fronte ad una pluralità di situazioni diverse a cui possono essere
applicati altrettanti differenti procedimenti educativi; ciò che conta
veramente è stabilire che cosa bisogna fare in quel determinato contesto
e come farlo: la responsabilità e la preparazione del formatore assumono
quindi un ruolo centrale all’interno dell’intervento276.
Il
compito che egli deve assumere è piuttosto arduo; infatti, la formazione
deve essere vissuta come un grande lavoro di gruppo, in cui conta moltissimo la
dinamica di gioco che si instaura tra gli attori che sviluppano le proprie
potenzialità cercando però di renderle compatibili con quelle
altrui. Il formatore deve essere in grado di ascoltare, leggere e osservare i
messaggi che gli vengono inviati, al fine di poterli interpretare; in questo
modo di lavorare quindi non c’è un copione standard prestabilito,
ma piuttosto proprio dagli imprevisti o dagli ostacoli che possono nascere
durante il lavoro di formazione, il formatore può cogliere interessanti
spunti per cercare di ottenere il massimo risultato.
Il metodo della formazione-intervento si basa quindi sulla
ricorsività tra conoscenza e azione; la conoscenza è intesa come
un conflitto, un continuo presentarsi di situazioni nuove che vanno vagliate ed
interpretate con sistemi diversi che prevedono da parte del formatore la
capacità di compiere ogni volta un’esplorazione attiva delle
diverse possibilità di scambio ed intervento che si aprono fra lui ed i
partecipanti al corso.
Stiamo parlando di una formazione aperta al dialogo fecondo e
proficuo, di una comunicazione che s’incentra soprattutto sul fare e non
sull’insegnare, dove spesso poi il formatore si mette da parte per
ascoltare ciò che gli altri hanno da dire277.
Come fa notare Giancarlo de Caro, noto consulente aziendale ed
esperto di formazione, il ruolo del formatore è di particolare interesse
soprattutto perché il suo lavoro prevede anche la capacità di
comunicare affettività278.
Sappiamo che l’esprimere emozioni rappresenta un forte punto di
riferimento nei rapporti interpersonali e dà un senso ed una misura
all’andamento della relazione, ma in modo particolare è la
capacità di gestire la comunicazione delle emozioni che, nel rapporto,
ha la parte dominante con massima attenzione però a far salva l’interazione,
consentendo all’altro di esprimersi come e quanto gli è dovuto279.
Questo
risulta particolarmente vero nell’ambito della formazione, dato che il
formatore è in primo luogo una persona in cui è presente una
componente affettiva, in secondo luogo perché la formazione,
raccogliendo intorno a sé i soggetti più disparati, non
può esimersi dall’offrire, nel suo dispiegarsi, opportunità
affettive, spesso anche di stimabile rilevanza.
Il formatore, dunque, nella sua attività, non può
non comunicare affetti sia perché possiede, come uomo, delle
“competenze affettive”, sia perché l’azienda
all’interno della quale opera, concretizza la propria attività
esprimendosi in termini di affettività e razionalità; in questo
difficile ambito, il formatore è chiamato a svolgere una funzione di
coordinamento dei sentimenti e delle emozioni che in esso si generano,
restandone al tempo stesso coinvolto e divenendo lui medesimo un dispensatore
attento e disinteressato.
A seconda poi degli obiettivi e dei piani strategici che
l’azienda vuole raggiungere per mezzo della formazione, essa si
servirà di codici affettivi diversi: i due principali sono quello
“paterno” e quello “materno”.
Il primo codice prevale quando in formazione si insiste sulla
professionalità, particolarmente se specializzata, sul miglioramento
della produttività, sulla gestione delle autonomie concesse, sul
rispetto dei canoni e delle normative; il secondo invece si utilizza
maggiormente quando la formazione è donazione, attenzione ai bisogni,
comprensione dei disagi professionali, ma soprattutto il codice
“materno” predomina quando la formazione considera tutti uguali i
suoi “figli” (utenti) e li cura in maniera da non fare
parzialità.
Detto questo possiamo riconoscere che la formazione ai ruoli
professionali risente dell’utilizzo da parte del formatore di questi
codici ma anche delle tecniche specifiche atte a realizzarli.
Infatti, quando si decide di fare della formazione aziendale,
occorre anche saper scegliere i mezzi adeguati per ottenere il massimo
conseguimento degli obiettivi che l’azienda stessa ha richiesto.
La tecnica più usata attualmente in formazione è
rappresentata dai role playing, o
giochi di ruolo280. Lo scopo principale
di questo tipo di tecnica è quello di servirsi della pratica della
drammatizzazione dei ruoli, attraverso la loro messa in scena, al fine di
ottenere un vantaggio formativo che solitamente consiste nella capacità
di saper meglio svolgere il proprio ruolo o la propria professione.
Ci troviamo di fronte ad una pratica del tutto particolare, in
cui la leggerezza del gioco e la sua possibilità di essere impiegato per
fini educativi e formativi, senza per questo togliere al soggetto il gusto di
provare a fare cose nuove rispetto agli standard abituali e senza correre il
rischio di doverne poi subire le conseguenze, se non al massimo quella di
doversi sentire “giocato” da altri, la rende estremamente efficace
e allo stesso tempo stimolante sia per chi la vive in prima persona, sia per
chi la insegna.
Attraverso l’utilizzo del role playing, il soggetto acquisisce un sapere di cui prima non era
a conoscenza, imparando così nozioni nuove che arricchiscono la sua
preparazione; in altri casi può succedere anche che questa tecnica
evidenzi le sue lacune e metta in discussione le sue certezze, provocandogli un
senso di smarrimento iniziale indispensabile poi per ottenere da lui la
consapevolezza dei propri limiti necessaria ad apprendere ciò che gli
verrà insegnato.
Per quanto riguarda poi i modelli più utilizzati di
questo strumento, due sono quelli che devono essere ricordati: il role playing strutturato e quello non
strutturato281.
Il primo modello consiste in una sorta di copione o scheda di
lavoro preparata precedentemente allo svolgersi del corso di formazione, in cui
sono già scritte le parti o i ruoli che i diversi partecipanti al role playing dovranno interpretare e
dove sono elencati i problemi su cui si deve dibattere in quello specifico
caso; ogni partecipante poi sceglie liberamente le modalità di
interpretazione del proprio ruolo e talvolta il formatore può creare situazioni
particolarmente utili ai fini di una buona riuscita degli obiettivi del gioco
stesso, assegnando ad una persona un ruolo che prevede di confrontarsi con una
tesi con la quale lui non è affatto d’accordo, misurando
così le sue abilità e competenze.
Il secondo modello, pare particolarmente idoneo alla formazione
aziendale, la quale per altro oggi rifiuta un’eccessiva strutturazione ed
uno sbagliato ipercontrollo di tutto il setting
seminariale e preferisce invece una tecnica basata sulla spontaneità e
sulla creatività, aperta al possibile e non utilizzata in modo
prescrittivo e addestrativo. Si tratta di creare una situazione nella quale le
persone possano dire e fare cose più spontanee e creative di quelle che
fanno nell’esercizio ordinario dei loro ruoli e della loro vita
lavorativa; <<[…] una situazione che renda possibile rielaborare la
definizione, i confini, e i modelli di esercizio dei ruoli ricoperti,
innovando, facendo uscire i ruoli dalla loro possibile corazza>>282.
Quindi, per una buona riuscita del role playing, occorre prima di tutto sapere che utilizzo se ne
vuole fare e a quali soggetti esso è destinato; secondariamente,
è indispensabile vagliare anticipatamente la disponibilità reale
dei partecipanti, la loro maggiore o minore tolleranza nei confronti di livelli
toccanti di analisi, le loro capacità di controllare il grado e
l’intensità emotiva delle interazioni; infine, bisogna spiegare ai
partecipanti, prima di iniziare il gioco vero e proprio, che cos’è
il role playing e come si può fare.
Oltre a queste necessarie informazioni preliminari, chi si
appresta a svolgere una seduta di role
playing deve preoccuparsi di scegliere il luogo dove decidere di operare;
solitamente è ideale un ambiente fisico che consenta a tutti di muoversi
con agio o stare seduti e poter vedere il resto dello spazio, stando a una
distanza dagli altri che consenta di parlare in modo normale: per questo
è bene evitare i luoghi rumorosi. Inoltre è indispensabile una
certa riservatezza, per cui non sono ammessi alla seduta coloro che non
svolgono il seminario di formazione, sia per la riservatezza dei contenuti in
questione, sia per la necessaria concentrazione indispensabile per il buon
esito di questo tipo di pratica.
In questa modalità di gioco non occorrono arredi fissi o
particolari scenografie: bastano delle sedie e un tavolo, meglio se agevolmente
spostabile, il quale potrà essere messo al centro, se serve, o essere
lasciato contro il muro.
Nel caso poi del role
playing strutturato, ci si avvale in genere di istruzioni preparate in
precedenza, da distribuire; in esse si usa spesso inserire anche qualche dato
relativo al carattere delle persone, oltre che informazioni generali e dati
sulle strategie di ruolo e sui problemi soggettivi. Il formatore deciderà
se è opportuno che tutti leggano tutte le istruzioni o se darle
solamente a chi impersonerà il ruolo.
In situazioni molto strutturate o con persone che non hanno
dimestichezza con la formazione possono essere utili, a uso degli osservatori,
le schede di rilevazione: semplici elenchi di interrogativi ai quali rispondere
a gioco ultimato, scale percentuali per diagnosticare comportamenti o
atteggiamenti e così via; le schede possono essere distribuite alla fine
del gioco, nel caso della valutazione, o consegnate in precedenza, sotto forma
di griglia per orientare l’osservazione.
Molti formatori usano la registrazione del role playing, su nastro audio o video. Questa pratica offre un
grande vantaggio: il gioco può essere riascoltato o rivisto, fermandosi
sui particolari, permettendo di vedere aspetti che nello svolgimento reale non
si erano notati, commentando in modo molto analitico lo svolgersi
dell’esercitazione283. Per
non rischiare però di perdere di vista il panorama totale nel quale gli
eventi sono inseriti, occorrerebbe che il formatore si facesse aiutare da un
assistente, in grado di appuntarsi i numeri del contatore corrispondenti a
momenti particolarmente interessanti o critici, al fine di poter rivedere
solamente quelli, dopo che siano state fatte analisi sufficientemente
significative dell’insieme; un altro modo di registrare può essere
quello tradizionale degli appunti, tenendo sempre presente che la loro
validità dipende soprattutto dalla capacità di colui che è
impegnato a selezionare le notizie. Gli appunti possono essere presi anche
dagli stessi partecipanti al seminario e di questo materiale si servirà,
come vedremo poi nella parte relativa ai commenti finali, il formatore per
cercare di interpretare il seminario.
Molto spesso il role
playing viene condotto da un singolo formatore, che lavora da solo senza
l’aiuto di collaboratori esterni, questo soprattutto per gli alti costi
di altre presenze professionali; non mancano comunque i casi di collaborazioni
tra più persone, in cui gli assistenti possono recitare insieme agli
altri partecipanti per animare il gioco stesso oppure possono svolgere il ruolo
di osservatori esterni, molto utile per arricchire l’analisi finale e
contribuire all’interpretazione che dovrà effettuare il formatore.
Una
persona che si appresta a condurre un role
playing dovrà essere molto preparata, perché questa tecnica
sembra molto facile solo in apparenza; il formatore dovrà possedere sia
qualità personali, sia professionali, <<[…] dovrà
essere aperto e riservato, amichevole e fermo, dinamico e riflessivo, riuscire
a stimolare quando è il caso o ad attendere nel caso opposto. […]
Inoltre occorrono qualità simili a quelle del buon formatore in
generale: buon senso, mobilità psicologica nell’orientarsi e
intuire, destrezza, tatto e sensibilità, per capire abbastanza bene che
cosa succede, per essere persuasivo se occorre, indurre a partecipare, dipanare
le complessità e i differenti livelli degli eventi. Trattandosi di una
tecnica attiva è anche importante una certa capacità di prendere
rapidamente – senza interrompere l’azione – decisioni di
buona qualità, adatte agli obiettivi e alla relazione tra gli obiettivi
e le cose che vanno emergendo>>284.
Dopo queste necessarie premesse preliminari sul role playing, vediamo adesso concretamente
come esso si svolge.
Innanzitutto dobbiamo subito precisare che esso è
costituito da tre fasi tipiche, a cui se ne aggiunge una quarta solo in
situazioni particolari:
1)
fase di warming
up: introduzione e riscaldamento;
2)
fase di azione: gioco;
3)
fase di commento, discussione e analisi in
gruppo.
A queste tre fasi, si aggiunge tra le seconda e la terza, solo
in casi in cui il gioco sia durato più del previsto ed i soggetti siano
particolarmente coinvolti, la fase di cooling
off, ossia una serie di esercizi necessari per aiutare i partecipanti a
ritornare alla normalità e a lasciare i propri ruoli.
Per quanto riguarda la prima fase, essa consiste in una serie di
esercizi che i partecipanti al role
playing sono costretti a fare per prepararsi poi al gioco vero e proprio;
attraverso una serie di giochetti o brevi sketch,
i soggetti si riscaldano, iniziando a recitare e a muoversi285.
Dopo la fase di riscaldamento, segue la divisione dei ruoli, che
precede il momento dell’azione e del gioco vero e proprio; in questo
caso, a differenza dello psicodramma, tutti i partecipanti alla seduta recitano
un ruolo, il quale solitamente è scelto di spontanea volontà dai
partecipanti oppure è il formatore a indirizzarli, facendo loro delle
domande che li aiutino a sbloccarsi e a capire che parte vogliono interpretare.
Durante l’azione poi, possono essere attuate da parte del formatore, che
solitamente sta in silenzio ad ascoltare gli altri, delle tecniche più o
meno complesse, atte a rendere il gioco più articolato; sta
nell’abilità del direttore capire fino a che punto i partecipanti
sono pronti e capaci di svolgere il gioco secondo le nuove modalità
introdotte, eventualmente riportando la situazione ad un livello più
semplice se li vede impacciati in tali pratiche, pena il rischio di
compromettere il gioco stesso.
Tra le tecniche più usate durante l’azione,
ricordiamo: la tecnica dell’“a parte”, quella del doppio,
l’inversione dei ruoli e la proiezione nel futuro286.
Per quanto riguarda la prima tecnica, essa consiste nella
capacità attorale del soggetto in scena di dire qualcosa rivolgendosi al
pubblico; essa risulta molto utile per far dire a colui che sta impersonando un
determinato ruolo, cosa pensa veramente di esso e le emozioni che prova mentre
lo sta recitando. La seconda tecnica consiste nel fare recitare, dietro
l’attore, il formatore o un suo assistente che parla come se fosse la sua
coscienza; in questo caso si distinguono due diverse modalità: il doppio
“in” o il doppio “out”. Il primo tipo assomiglia ad
una sorta di monologo interiore, in cui il formatore o l’assistente si
avvicinano all’attore come se egli stesse facendo un monologo interiore,
facendo così in modo che il personaggio parli ad alta voce, di fronte ad
un pubblico che finge di non sentirlo ma che in realtà, da quel momento
non può più fare a meno di ciò che ha sentito, innescando
così una sorta di contraddizione potenzialmente fertile per il proseguo
del gioco stesso; invece il secondo tipo di tecnica del doppio consiste nel far
dire al personaggio cose rivolte agli altri, innescando nell’attore e nel
pubblico riflessioni utili a far smuovere la situazione iniziale.
La terza tecnica consiste nell’ordinare a due attori di
scambiarsi la parte mentre stanno recitando, ad esempio al capo verrà
chiesto di fare il dipendente e viceversa, cercando di aiutare i personaggi ad
immedesimarsi nel nuovo ruolo, magari attraverso lo scambio delle posizioni
tenute durante la recitazione; questa tecnica è molto utile per aiutare
le persone ad imparare ad assumere pienamente i propri ruoli, ma essa non va
usata in modo percussivo, perché se si vede che gli attori non riescono
ad eseguirla, è meglio interromperla, altrimenti si rischia di far
finire il gioco stesso.
L’ultima tecnica prevede la capacità da parte dei giocatori
di immaginarsi un incontro da lì ad un anno o più; essa serve a
far prendere distanza, a produrre opinioni e giudizi di raggio più
ampio, trasformando il presente in ricordo, ridimensionando e rivedendo.
Dopo quanto abbiamo detto, il gioco si conclude con
l’interruzione da parte del formatore dopo un lasso tempo prestabilito;
se però egli ha deciso di farlo proseguire ancora, perché ha
visto ad esempio che si stavano ottenendo dei buoni risultati, allora
sarà necessario, una volta che esso sia terminato, attuare la fase di cooling off, per aiutare le persone ad
uscire dal ruolo recitato, ritornando così alla normalità. Per
fare questo, basterà che il formatore inviti i soggetti a raccontare
come si sono sentiti e ad esprimere le proprie emozioni, al fine di farli
rilassare e allontanare dal gioco stesso.
L’ultima fase del role
playing consiste nel commento e nell’analisi di quanto è
avvenuto. Il compito del formatore dovrà essere quello di invitare i
partecipanti a ricordare e a trasmettere ciò che hanno provato e le
emozioni che hanno vissuto durante il gioco, al fine poi di interpretare
ciò che è successo; questo è un compito particolarmente
difficile, perché l’attività dell’interpretare
prevede sia il comprendere, ossia il capire dentro, sia lo spiegare,
cioè il rendere pubblico, l’esplicare.
Siamo di fronte a quello che Anna Ancelin Schutzenberger chiama
psicodramma triadico287, nel
quale oltre all’azione, un ruolo fondamentale viene ad assumere la
riflessione sull’azione, quando la formazione non è finalizzata
all’addestramento o all’apprendimento cumulativo.
Il formatore dovrà essere capace di accompagnare, alle
critiche e ai commenti negativi che possono sorgere dall’interpretazione
del role playing, una parte di
proposte di cambiamento, atte a migliorare gli errori e le situazioni
problematiche esaminate; inoltre, egli dovrà essere in grado di
accogliere i suggerimenti e le riflessioni dei partecipanti, mettendosi quasi
sullo sfondo, pronto ad intervenire solo quando la situazione glielo richiederà.
Come sostiene Capranico, il role
playing avrà ottenuto successo, se esso si sarà dimostrato
potenzialmente destabilizzante, a patto di far seguire alla destabilizzazione,
un processo riparativo e ristabilizzante, attuato grazie alla fase
dell’interpretazione di gruppo, più feconda rispetto a quella
realizzata dal singolo formatore288.
Dopo
questa lunga digressione sulla modalità del role playing, giustificata dal fatto che in essa sono presenti le tecniche
teatrali e quindi essa rappresenta una pratica concreta di intervento teatrale
in azienda, non si può però dimenticare un altrettanto valida
tecnica di fare formazione, la quale utilizza un altro strumento: quello
dell’autobiografia.
Come suggerisce Duccio Demetrio nel suo recente libro289, il racconto autobiografico
rappresenta un importante processo formativo per la crescita
dell’individuo, validità che per altro gli era già stata
conferita nella Grecia antica e in epoca romana. L’autobiografia già
allora veniva considerata come un farmaco in grado di procurare a chi la
praticava, il piacere legato alla reminiscenza; inoltre essa era considerata
come una pratica capace di creare dissolvenze, cioè il piacere di
ricordare le immagini, ma anche la convivenza, ossia di comunicare attraverso
la propria testimonianza le emozioni e i ricordi agli altri.
Grazie all’autobiografia, continua l’autore, il
soggetto di ogni epoca storica, può giocare con i propri ricordi, in
quanto egli durante questa pratica può lasciarsi andare liberamente,
senza dover per questo ricercare uno stile di scrittura dotto ed eloquente che
in qualche modo potrebbe danneggiare la sua spontaneità.
La pratica autobiografica ci consente, secondo Demetrio, di
essere un altro rispetto a se stessi, ossia di staccare il bambino o
l’adolescente colti durante le tregue autobiografiche nella loro
discorsività o totalità indifferente rispetto a ciò che
siamo ora; quando poi la memoria non è perfettamente lucida e non ci
ricordiamo tutto alla perfezione, allora ci viene in soccorso il legame
simbolico che certi oggetti, cose o situazioni hanno esercitato su di noi290.
Seguendo la teoria transizionale dell’oggetto di Winnicott291, Demetrio arriva a dire che
l’autobiografia rappresenta uno di quegli oggetti che nei momenti di
ansia o transizione, quando è in gioco una separazione da un luogo a noi
caro o da qualcosa o qualcuno a cui siamo particolarmente legati, ci permettono
di sopportare la perdita; la differenza di essa rispetto a ogni tipo di altro
oggetto, sta nel fatto che l’autobiografia è qualcosa che ci
costruiamo da soli.
L’autobiografia, quindi, può essere vista come uno
strumento di cui è dotata la nostra “animula”
per raccontarsi e raccontare ciò che ha visto lungo il suo viaggio;
il suo utilizzo però, secondo Demetrio è molto più
proficuo e può seguire modalità diverse.
Innanzitutto si può scrivere la propria autobiografia per
piacere personale, per stare e sentirsi bene; secondariamente si può
scrivere la biografia di altri; infine, e questo è il campo che
più ci interessa, si possono usare le storie di vita come strumento per
educare e formare, soprattutto nel campo della formazione aziendale.
<<[…] L’educazione all’autobiografia
contribuisce quindi alla formazione sia di una mentalità filosofica e
scientifica, sia di una sensibilità maggiore alla solidarietà per
gli altri, sia, infine di un habitus
intellettuale i cui effetti si riverberano in campi diversi: dalla professione
alla vita privata, da un modo di interagire con gli altri alla
“capitalizzazione” migliore di ciò che si è e si
può ancora diventare>>292.
Dallo studio poi delle biografie altrui, continua Demetrio,
realizzato attraverso interviste o organizzando racconti, oltre che dal lungo
lavoro impiegato per scrivere la propria storia di vita, l’autobiografico
può accedere ad un terzo livello, che lo vede educatore di altre
persone.
Sono ormai numerose le scuole di pensiero, le proposte
seminariali, le esperienze organizzate appositamente per apprendere
l’arte dell’autobiografia o la tecnica della raccolta delle storie
di vita, ognuna delle quali si differenzia per procedure, tempi e metodi
diversi; non mancano, poi, percorsi di formazione più vincolati a
esigenze locali: di aziende, ospedali, scuole. In tali casi i seminari di formazione
privilegiano il metodo della ricerca in itinere.
Si ricostruisce, con piccoli gruppi di partecipanti (dai 10 ai 15), sia le
storie di vita personali che le cosiddette “biografie
organizzative” volte a riscoprire ad esempio il luogo di lavoro come una
biografia collettiva alla quale, talvolta, ci si rifiuta di partecipare e di
collaborare. La ricerca della ragione, delle difese che vedono, per anni,
lavorare gomito a gomito donne e uomini (dell’industria, dei servizi
sociali o scolastici) senza conoscersi, ignorandosi nel sospetto e nel
“dispetto” reciproco, diventa uno scopo del metodo. Chi si
coinvolge nella formazione autobiografica – dove il requisito è
sempre la libera e volontaria adesione, la disponibilità a lavorare su
di sé anche da soli, a dedicare tempo a piccoli esperimenti di
osservazione e autosservazione – discute di tutto questo, e non
più da solo, per trovare una via d’uscita alla crisi delle
relazioni umane nell’organizzazione, con ricadute non da poco sui diritti
del cliente e dell’utente.
Ci sono poi dei seminari ancora più specifici che
dedicano particolare attenzione alle biografie cognitive: alla storia del
proprio apprendimento, alla fatica di imparare, alle specifiche
difficoltà che si incontrano da adulti e non, di fronte all’acquisizione
di conoscenza e abilità mentali; per mettere il soggetto nella
condizione di misurarsi poi con i talenti acquisiti, alcune metodiche
seminariali includono anche la trasposizione teatrale dell’autobiografia,
la messa in fiaba fantastica, l’uso di tecniche di pittura e la danza.
In conclusione, se crediamo nel valore educativo e formativo
dell’autobiografia, non possiamo che concordare con
Demetrio:<<[…] l’autobiografia è l’espressione
più elevata della coscienza e della consapevolezza; non soltanto ci
riporta al passato, essa abbraccia quanto abbiamo vissuto, stiamo vivendo,
vivremo; è sintesi e analisi che aggiunge un altro dominio della mente,
tutto speciale, agli altri suoi poteri>> e ancora <<[…] ci
invita a guardarci indietro e allo stesso tempo avanti se la viviamo sia come
percorso di cura, sia come itinerario di apprendimento continuo>>293.
Pertanto, indipendentemente dalle finalità di corsi e
seminari, all’educatore-formatore autobiografico interesserà
soprattutto che quanto accade nei brevi momenti in cui egli fa questo tipo di
pratica, costituisca per i soggetti che la vivono un’esperienza diversa
dal solito, qualcosa insomma che valga la pena di ricordare, perché
è stata in grado di arricchire la propria storia di vita in modo del tutto
particolare. Il solo fatto che qualcuno ricordi di essere stato bene, di
essersi trovato forse per la prima volta davanti a questioni irrisolte che
richiedevano di essere affrontate o di fronte ad emozioni che nemmeno pensava
di avere dentro di sé e che inaspettatamente è riuscito a tirare
fuori, allora l’esperienza autobiografica avrà lasciato un segno
inequivocabile della sua efficacia terapeutica, così da poterne
giustificare l’uso in ambito formativo.
Dopo questa lunga parentesi dedicata alla formazione e alle sue
modalità di esecuzione, concluderò questa ampia descrizione sulle
possibili metodiche di intervento teatrale in azienda, parlando della
drammaturgia scritta e ideata per l’impresa, la quale rappresenta la
quarta pratica teatrale da me individuata.
3.2.4: Drammaturgia scritta e
interpretata per l’impresa.
In
questo paragrafo voglio parlare di una modalità di utilizzazione del
teatro come strumento a servizio dell’impresa del tutto nuova e ancora in
fase di sperimentazione, sia da parte di chi la produce, (cioè gruppi di
professionisti che si servono del teatro per fini non puramente artistici), sia
da parte di chi ne commissiona l’intervento, ossia le aziende che
necessitano di tale pratica.
In
ogni caso, in base allo stato attuale della ricerca, per la quale mi sono
servita di interviste a persone che lavorano in questo campo294, quando si parla di
“drammaturgia per l’impresa”, s’intende un progetto di
spettacolo scritto e ideato appositamente per quella specifica azienda che lo
commissiona; non si tratta quindi di una drammaturgia convenzionale, ma
piuttosto di uno spettacolo teatrale nuovo, scritto per la prima volta con
l’azienda al fine di presentare degli input
alla dirigenza.
L’occasione è costituita dalla decisione di un
nucleo dirigenziale, che per raggiungere alcuni obiettivi, legati soprattutto
allo sviluppo delle risorse umane e alla loro motivazione e fidelizzazione,
decide di ingaggiare un’agenzia di professionisti specializzati in questo
tipo di pratica teatrale, al fine di aiutarli nel conseguimento di tali
finalità; attraverso un brief
iniziale, ossia una riunione tra la dirigenza e gli organizzatori
dell’intervento teatrale, vengono discussi gli scopi che l’azienda
vuole raggiungere con questo tipo di pratica e quindi le possibili
modalità di scrittura del testo drammatico e della sua messa in scena,
operazioni che poi comunque vengono svolte soltanto dai professionisti
dell’agenzia stessa, il cui impegno consiste nel realizzare un prodotto
che risponda ai bisogni di chi l’ha commissionato.
L’agenzia, quindi, crea un testo studiato appositamente su
tali problematiche e la cui messa in scena avviene solitamente in occasioni
rituali tipiche dell’azienda: durante le Convention, si procede attraverso un effetto definito “a
sorpresa”, a mostrare ad un pubblico prestabilito ma ignaro di ciò
che lo aspetta, non le solite slide o
immagini video destinate a spiegare l’argomento di cui si dovrà
dibattere in tale seduta, ma piuttosto un allettante spettacolo teatrale,
producendo un effetto davvero disarmante.
Nella parte relativa alle esperienze concrete italiane,
cercherò di spiegare due diversi tipi di intervento teatrale realizzati
con questa tecnica.
Procediamo ora all’analisi di alcuni esempi utili ad
illustrare come si possano usare
effettivamente le metodiche di intervento teatrale in
azienda.
3.3:
Alcune esperienze significative italiane.
In
questo paragrafo mi appresto a presentare e a raccontare alcuni esempi italiani
di come sia stato possibile, e/o lo sia tuttora, utilizzare concretamente lo
strumento teatrale e le tecniche ad esso correlate, per intervenire nella
realtà aziendale. Si tratta di una prima ricognizione di materiali ed
esperienze, che non esclude comunque altre esperienze e contributi; le
esporrò secondo un criterio di importanza, muovendo da un livello
più semplice e “tecnico”, per giungere ad uno sempre
più complesso e articolato.
3.3.1:
Il teatro come strumento di comunicazione.
Quella
che mi appresto a descrivere è l’esperienza di una donna-attrice
che ha voluto fare del teatro la propria ragione di vita; la formazione di
questa professionista ha rappresentato solo il punto di partenza indispensabile
per raggiungere poi il vero obiettivo che ella si era prefissata: diventare
un’operatrice culturale295.
Nel corso della piacevole conversazione che ho potuto avere con
Teresita Fabris nel febbraio 1999, ho ricavato delle utili osservazioni, per
quanto riguarda l’importanza dell’impiego dello strumento teatrale
al fine di migliorare la comunicazione umana in generale, di cui per altro la
nostra società contemporanea sembra avere particolarmente bisogno, in
quanto soffocata da quella tecnologica e mediale.
Il
nostro discorso si è aperto con un dibattito su quali erano state le sue
intenzioni nello scrivere Professione
comunicatore296, il libro da lei
recentemente pubblicato e dedicato appunto a migliorare i difetti della
comunicazione umana, attraverso l’uso delle tecniche teatrali.
L’intento dell’autrice era quello di scrivere un
libro per i bambini, o meglio, dedicare uno studio alle modalità con cui
curare i vezzi e i difetti di pronuncia di cui soffrirebbero i più
piccoli; la sua convinzione era quella che tali difetti, per essere del tutto
superabili, andassero corretti fin dalla tenera età; inoltre, non la
interessava scrivere un testo destinato agli aspiranti attori, perché
per loro esistono già molte scuole specializzate in questa direzione.
Ma, per problemi di incomprensione con la casa editrice, ha
dovuto abbandonare il suo progetto e quindi ripiegare su un libro per adulti,
rivolto ad un pubblico disomogeneo che avesse bisogno, per svariati motivi sia
professionali che relazionali, di migliorare la propria comunicazione.
Nessuno meglio della Fabris avrebbe potuto constatare questo
tipo di disagio, largamente presente nella nostra società e grazie alla
sua lunga carriera professionale, l’autrice ha potuto acquisire gli
strumenti e le abilità necessarie per compiere questo tipo di progetto.
Il suo sogno quindi era quello di fare cultura e comunicazione, in uno scambio
fecondo di nozioni e pareri condivisi o meno con altre persone, a cui lei
riteneva di poter offrire ciò che durante la sua esperienza era riuscita
ad apprendere; e così ha fatto.
Ma,
tra le numerose esperienze che hanno segnato la sua carriera professionale, la
più interessante, ai fini di questi studio, è sicuramente quella
che riguarda la preparazione dei manager. Come riferisce la Fabris, sono stati
gli stessi manager e dirigenti d’azienda a rivolgersi al lei privatamente
per prendere delle lezioni di dizione e gestualità297. Lo scopo di questo lavoro, continua
la Fabris, è stato quello di fornire a queste persone delle
abilità tecniche che le permettessero di parlare correttamente e
muoversi in modo sciolto e disinvolto ogni qual volta si fossero trovate in
presenza di un pubblico venuto lì per ascoltarle. Infatti, come lei
racconta, questi individui, pur capaci professionalmente, lamentavano
però dei seri difetti di pronuncia e di accentazione delle parole;
attraverso continui esercizi di lettura, soprattutto di passi del Manzoni,
ritenuto dalla Fabris ricco di una punteggiatura efficace, è riuscita ad
insegnare a queste persone a parlare correttamente. In alcuni casi, soprattutto
quelli più seri, è dovuta ricorrere anche agli esercizi sulla
respirazione, impiegati solitamente per la preparazione attorale. Come lei
stessa riferisce, questo è stato un lavoro prevalentemente di tipo
tecnico, in cui delle persone si esercitavano nella lettura di testi, su cui
poi venivano ascoltati, senza esservi dietro, da parte dell’insegnante,
nessuno scavo di natura psicologica; anche se, come la Fabris ammette, non
è mai possibile lavorare con e su una persona, senza almeno cercare di
capire chi ci troviamo di fronte. Fatta questa opportuna precisazione, rimane
il dato inequivocabile che il lavoro compiuto da queste persone non prevede mai
un’analisi di tipo psicologico com’è quella che gli attori
fanno prima di interpretare un personaggio: quando si insegna solo dizione, ci
si trova ad un livello di uso delle tecniche teatrali inferiore rispetto
all’impiego recitativo.
L’esperienza avuta con i manager ha spronato ancora di
più Teresita Fabris a credere nella potenza dello strumento teatrale
come mezzo necessario per permettere ad ogni persona di prendere coscienza ed acquisire
sicurezza nelle proprie doti e nelle proprie capacità, sapendo anche
trasformare in pregi gli inevitabili limiti e difetti che ognuno di noi
possiede.
Il metodo consiste nel far imparare agli individui a dosare
sapientemente pause, semipause e accenti al fine di essere padroni della
propria comunicazione; per aiutarli ad apprendere queste tecniche, la Fabris fa
eseguire loro tutta una serie di esercizi basati sulla lettura, sulla
vocalità e sulla respirazione, seguiti da quelli sulla gestualità
ed i movimenti corporei, indispensabili per conoscersi, sentirsi e toccarsi, in
vista della possibilità di lavorare in gruppo; l’obiettivo
è fornire a questi individui la sicurezza e le capacità personali
per affrontare qualsiasi tipo di professione lavorativa.
Infatti, la Fabris è convinta e, questo è anche
l’obiettivo che noi vogliamo dimostrare, che la potenza dello strumento
teatrale è tale perché esso serve ad insegnare ad una persona a
sfruttare le proprie potenzialità espressive indispensabili per poter
intraprendere delle relazioni basate su una comunicazione autentica; stiamo
parlando di un teatro inteso come rivelazione, che permetta ad una persona di
liberare le virtù nascoste, capendo così ciò che veramente
può fare e non invece dell’arte usata come finzione al fine di
ingannare gli altri.
La nostra società tecnologica, apparentemente dominata
dall’ipercomunicazione, ma dove in realtà con il passare del tempo
le persone sembrano aver perso la voglia e la capacità di comunicare
apertamente l’uno con l’altro e dove il mondo del lavoro è
stato a lungo dominato da individui in grado di pensare e lavorare solo con la
testa, sembra lanciare un chiaro messaggio di aiuto al mondo del teatro,
affinché per mezzo delle sue tecniche espressive, riesca a riportare una
situazione di equilibrio e benessere.
Voglio chiudere la descrizione di questa esperienza, a mio
avviso particolarmente utile e significativa per capire come concretamente il
teatro possa essere impiegato in aiuto di realtà a lui solitamente non
consone, riportando le parole di Teresita Fabris:<<[…] è
come se il corpo di un uomo, tenuto per troppo tempo chinato e sopito a causa
dell’impossibilità di esprimersi pienamente, a cui lo costringono
sia la nostra società che il mondo del lavoro, un giorno si risvegliasse
tutto intero: questo sarebbe il frutto di un serio contributo teatrale a lui
fornito>>298.
Un altro significativo esempio di questo modo di utilizzare le
tecniche espressive tipiche del teatro per ambiti che esulano da quello
specificatamente attorale per il quale sono nate, è rappresentato dal
lavoro di Romana Garassini, di cui in questa sede mi interessa parlare
dell’applicazione solo in ambito aziendale299.
Come riferisce la Garassini, l’azienda solitamente si rivolge a lei per richiedere
un intervento immediato e breve al fine di preparare delle persone singole o
dei gruppi che lavorano alle sue dipendenze, in quanto inizialmente incapaci di
farlo, a sostenere delle presentazioni in pubblico, delle interviste stampa o
alla radio, delle Convention o dei
dibattiti, in cui questi individui devono trasmettere dei significati e dei
contenuti cardine per l’immagine dell’azienda stessa. Il consulente
è chiamato a soddisfare la richiesta dell’impresa, cioè
quella di fornire ai propri collaboratori le tecniche di dizione e di
comportamento necessarie per affrontare questo tipo di situazioni particolari,
facendo in modo che ogni persona possa esprimersi attraverso una comunicazione
più efficace e con una consapevolezza maggiore delle proprie
capacità e dei propri limiti, al fine di risultare il più
possibile convincente nei confronti dei propri interlocutori.
Svolgere questa professione non è certo facile ma
soprattutto, come precisa la Garassini, non tutti possono diventare dei bravi insegnanti
di dizione e dei buoni comunicatori300;
innanzitutto occorre una buona base artistica ed in questo caso lei stessa
riconosce di essere stata favorita dalla propria preparazione attorale;
secondariamente è indispensabile possedere anche una buona preparazione
culturale affiancata però da una sensibilità particolare di tipo
psicologico, fondamentale per capire le persone con cui si deve lavorare.
Infatti, ed in questo la Garassini insiste molto, la sua esperienza la spinge a
non utilizzare mai un metodo standard preconfezionato, valido per tutte le
circostanze. Il suo lavoro consiste nel partire da un’impostazione
teatrale di base, adattata ed incanalata a seconda degli individui cui è
rivolta e a seconda dei bisogni che l’azienda richiede: l’importante
è essere capaci di trasmettere a queste persone degli input, che poi
loro dovranno essere in grado di utilizzare nel momento del bisogno.
La sua modalità di fare un training di comunicazione, prevede la seguente
“scaletta”: la prima fase consiste nel presentare al singolo o al
gruppo, solitamente composto da non più di otto-dieci persone, il piano
di lavoro e gli obiettivi che si vogliono raggiungere. In seconda fase, viene
distribuito un testo che dovrà essere letto ad alta voce, mentre una
telecamera li registrerà. Segue poi una fase di metarelazione e di
autocritica personale in cui la Garassini cerca di capire, rivedendo le
registrazioni filmate e facendo rilevare agli stessi partecipanti al corso, i
loro difetti, annotandoli in un’apposita scheda di valutazione, che viene
esposta ai singoli alla fine del corso. Solo a questo punto la Garassini spiega
loro quali sono le tecniche usate nel parlare in pubblico, chiarendo
immediatamente che la finalità del corso non risponde solo ad un bisogno
aziendale ma che attraverso il seminario ognuno potrà ricavare un
beneficio ed un arricchimento personale per se stesso; inoltre, il compito del
comunicatore deve essere quello di mettere ciascun partecipante nella
condizione di essere libero di manifestare le proprie paure e i propri difetti,
facendo loro capire che se si nascondono dietro una maschera, dando
un’immagine di falsità per timore di fare una brutta figura, il
corso avrà fallito la propria missione, perché proprio grazie ad esso
ognuno dovrà poi essere in grado di sostenere un ruolo anche quando il
proprio stato d’animo non glielo consentirà. In ogni caso, a fine
corso, l’azienda solitamente chiede al consulente di mostrarle come
ciascun partecipante ha lavorato e che risultati ha ottenuto, verificando così
anche l’impegno dei propri dipendenti.
Dopo questa ampia parentesi preliminare, continua la Garassini,
il seminario si focalizza maggiormente sugli esercizi di respirazione,
concentrati in un’ora di lavoro svolto a terra, dove tutti i partecipanti
si posizionano in cerchio; dato che, solitamente, le persone che seguono il
corso non conoscono questi tipi di esercizi, base fondamentale invece del
lavoro di ogni attore per la preparazione alla recitazione, la Garassini
fornisce loro un supporto cartaceo funzionale a spiegare come poterli svolgere.
Una volta conclusa la parte di esercizi a terra, si procede alle simulazioni,
vere e proprie recitazioni di dieci minuti ciascuna, in cui ogni persona si
prepara a leggere un discorso o a vendere un prodotto, a seconda di quello che
deve imparare a fare. Tutta questa fase è registrata, in modo che poi
possa essere rivista e analizzata, come in precedenza, al fine di permettere al
consulente di capire come dover operare con ogni partecipante. A questo punto,
la Garassini lavora singolarmente con ciascun individuo, suggerendo le tecniche
corrette ed efficaci per potersi preparare al meglio a svolgere il proprio
compito.
Solitamente, continua la Garassini, la lunghezza di questi
seminari dipende dal tempo che le persone interessate e l’azienda stessa
decidono di impiegare in questo tipo di formazione; in ogni caso, sulla base
della sua esperienza personale, è opportuno che i corsi non durino mai
più di due o tre mezze giornate, in quanto non si pretende di insegnare
a queste persone la tecnica corretta della respirazione attorale, (il che
richiederebbe un lavoro di almeno sei mesi), ma di fornire loro degli input ed un metodo che, se continuato al
di fuori del seminario, permetterebbe di sviluppare le proprie potenzialità,
riuscendo così a realizzare i propri obiettivi. Comunque, continua la
Garassini, a lei è capitato anche di fare un lavoro serio e completo
sulle tecniche del parlare in pubblico, la cui realizzazione ha richiesto molto
più tempo di quello impiegato solitamente per fare formazione in azienda
ma è opportuno ricordare che le imprese tendono a voler concentrare
questo tipo di corsi in poche sedute.
In ogni caso, Romana Garassini ribadisce che, anche se
l’impresa impone al comunicatore di eseguire il proprio lavoro in tempi
ed in condizioni non sempre favorevoli, comunque la professionalità di
un buon formatore impone di eseguire il proprio lavoro, preoccupandosi sempre
di farlo in modo serio e proficuo, al fine di fornire dei benefici a coloro che
partecipano ai propri seminari: questo vuol dire fare cultura all’interno
dell’azienda; dall’altra parte però, ci si scontra con la
dura realtà del mondo del lavoro e delle imprese, le quali purtroppo,
oggi, investono ancora molto poco sia in termini di denaro che di risorse nella
formazione culturale. Bisogna tenere conto di questo aspetto quando si inizia a
lavorare con esse, altrimenti si rischia di venirne travolti, non sapendo
più come conciliare le proprie convinzioni con i loro obiettivi, i quali
spesso non coincidono con i progetti del consulente.
Per chi invece auspica l’utilizzo dello strumento teatrale
per risolvere le problematiche di tipo relazionale e umano, la Garassini
risponde, sempre in base alla propria esperienza, che non ne esclude una
possibile applicazione, dato che la realtà attuale del mondo del lavoro
è dominata da situazioni conflittuali tra gli individui, che oggi
soprattutto lamentano anche soprusi psicologici da parte di dirigenti spesso
frustrati che a loro volta, visto l’attuale precarietà dei posti
di lavoro, non hanno la possibilità di ribellarsi; quindi, un tale tipo
di intervento potrebbe trovare un valido mercato di applicazione, nonostante,
sempre secondo le conoscenze della Garassini, in azienda, oggi, nelle realtà
in cui si verifica, questi tipi di situazioni vengono risolte con
l’intervento dello psicologo del lavoro, una figura professionale che
agisce nell’impresa ed il cui operato incontra spesso forti ostruzioni,
sia da parte della dirigenza, sia da parte dei dipendenti stessi301.
In America già si parla della possibilità concreta
di far funzionare meglio le organizzazioni, grazie ad una modalità di
rapporto da parte del management con i propri collaboratori e dipendenti,
basato sulla maggiore disponibilità e umanità nei loro confronti,
arrivando addirittura a dire che basterebbe un minuto al giorno in cui ogni
manager si sforzasse di gratificare le persone che lavorano con lui, per
ottenere un risultato di benessere collettivo per tutta l’azienda.
Ma se questa può apparire a noi un’utopia, dovrebbe
invece rappresentare uno spiraglio per iniziare un cambiamento concreto nella
nostra realtà italiana, nella quale, come spesso accade, le
novità arrivano con il conta gocce rispetto ad altri paesi ma dove, se si
vuole sopravvivere in una società globale come è quella attuale,
bisognerà trovare una soluzione, proponendo un progetto di miglioramento
umano e professionale in azienda302.
3.3.2: L’attore professionista in
azienda.
Dopo
la testimonianza di due donne attrici e professioniste nell’insegnamento
delle tecniche di dizione, mi appresto ora a descrivere il lavoro di un attore,
che ha deciso di mettere a disposizione le sue competenze attorali per fini non
puramente legati all’arte teatrale e secondo modalità diverse da
quelle della recitazione tradizionale: si tratta dell’esperienza di
Pierpaolo Nizzola303.
Come lui stesso riferisce, il primo vero contatto con il mondo
dell’impresa gli si è presentato quando faceva ancora parte della
compagnia teatrale di Grock e proprio a loro si era rivolta una compagnia
assicuratrice, nel caso specifico la Previdente Assicurazioni, per chiedere di
mettere in scena uno spettacolo finalizzato a pubblicizzare un loro prodotto,
cioè una polizza a vita, che aveva dato alcuni problemi.
Questa, come precisa Nizzola, può essere considerata una
prima applicazione, anche se a livello puramente strumentale,
dell’esperienza teatrale all’impresa; infatti, il copione era stato
scritto interamente dai responsabili dell’ufficio personale, mentre a lui
era toccato solo il compito di dover realizzare l’adattamento
drammaturgico.
Lo
spettacolo era stato rappresentato durante tre Convention, rispettivamente nel nord, centro e sud Italia, nelle
diverse sedi della compagnia assicuratrice, ottenendo uno stupefacente successo
dovuto soprattutto all’effetto di novità e sorpresa che esso era
riuscito a creare in quanti per la prima volta assistevano a questo tipo di
presentazione, solitamente inusuale per la sponsorizzazione di un prodotto in
una sede ufficiale come quella della Convention.
Inoltre, Nizzola riferisce di aver avuto un altro tipo di
esperienza di teatro a servizio dell’impresa, realizzando degli
interventi teatrali con scopo decorativo durante delle Convention, finalizzati alla sponsorizzazione di determinati
prodotti che quell’azienda produceva; in questo caso però, a
differenza dell’esempio sopra citato, l’attore aveva la massima
libertà di espressione e di modalità di recitazione,
purché logicamente riuscisse a presentare il prodotto, valorizzandone al
meglio le sue caratteristiche di vendita.
Un altro lavoro, sicuramente insolito per la tradizionale
professione di un attore, Nizzola l’ha affrontato con una scuola di
management, il CESMA, che l’aveva contatto per tenere delle lezioni di public speaking, indirizzate a manager,
dirigenti, titolari di piccole aziende, esperti di pubbliche relazioni e
responsabili di vendita, mandati dalle proprie imprese nelle quali lavoravano.
Anche questa esperienza si è rilevata molto proficua e stimolante:
l’attore ha potuto constatare in prima persona come, attraverso le
tecniche di dizione teatrale, anche delle persone che nella loro vita non erano
mai venute a contatto con questo strumento, potessero restarne affascinati e
ricavarne dei benefici personali e professionali.
Nizzola ha poi svolto lo stesso lavoro, cioè quello di
insegnare a parlare e muoversi in pubblico, per la rivista Argomenta, anche qui riportando dei buoni risultati.
Un’ultima esperienza di impiego teatrale per fini
aziendali, Nizzola l’ha svolta sempre su incarico del CESMA,
(commissionato a sua volta però dal Comune di Bologna, che ne era il
destinatario); l’obiettivo era quello di risolvere dei problemi di
funzionalità dei propri quadri dirigenti e per realizzare questo scopo
ha deciso di servirsi delle tecniche del role
playing, tipiche della formazione aziendale. Come riferisce lo stesso
Nizzola, si è trattato di dover condurre un gioco di ruolo, in cui
l’attore, dopo aver proposto uno schema di lavoro e aver diviso i quadri
in gruppi, (ognuno dei quali incaricato di mettere in scena lo stesso
problema), si è fatto da parte per osservare come si svolgeva il gioco.
Alla fase di gioco, è seguita la parte di interpretazione e di analisi,
da lui condotta, che ha evidenziato, sentendo anche le opinioni dei
partecipanti, una maggiore consapevolezza e disponibilità degli
individui ad aprirsi fra loro, soprattutto quando si trattava di affrontare
tematiche di gruppo. Quindi, l’obiettivo anche in questa occasione era
stato raggiunto.
Inoltre, come lui stesso riferisce, anche questo lavoro ha
dimostrato che l’esperienza attorale, che prevede l’unicità
della fusione di corpo e parola e una competenza culturale elevata, conferisce
alla formazione un livello qualitativo superiore.
La
potenza della rappresentazione teatrale consiste, secondo l’esperienza di
Nizzola, nella capacità di smuovere la situazione, di far emergere i
problemi, attraverso la loro messa in scena: questo non è altro che lo
straordinario effetto catartico di cui gode il teatro e che gli altri media gli
invidiano profondamente.
In ogni caso, la testimonianza di Nizzola vuole essere anche un
esempio per spronare il mondo del teatro e quanti vi operano ad uscire dalla turris eburnea che l’ha avvolto
per anni ed in cui anch’egli all’inizio è rimasto coinvolto;
portare il teatro fuori dal suo ambito tradizionale di collocazione, per farlo
diventare un utile strumento anche a servizio dell’impresa è
un’operazione possibile che può dare dei buoni risultati.
3.3.3: La drammaturgia scritta per
l’impresa.
Quello
che adesso mi appresto a descrivere come esempio significativo di teatro in
azienda deve essere fatto rientrare nella quarta tipologia di metodiche di
intervento che ho precedentemente elencato: mi riferisco alla cosiddetta
“drammaturgia per l’impresa”, ossia un progetto di
“spettacolo scritto e interpretato per”.
I due esempi che intendo presentare solo il frutto
dell’esperienza professionale di Laura Cantarelli, realizzati grazie alla
collaborazione della società per cui lavora304. Innanzitutto, è lei stessa a
precisare, di aver affrontato, con questi due lavori, una modalità del
tutto nuova di fare teatro in azienda; infatti, non si tratta né di una
drammaturgia convenzionale rappresentata da una compagnia di professionisti
durante i momenti rituali dell’impresa, né di una drammaturgia di
formazione volta a realizzare dei percorsi di cambiamento all’interno
dell’organizzazione, ma piuttosto di progettare uno spettacolo teatrale,
dalla fase di ideazione a quella di interpretazione, in collaborazione con
l’azienda al fine di presentare al proprio interno degli input da parte della dirigenza.
In tal modo lo spettacolo teatrale ha dei precisi committenti:
in questo caso è il nucleo dirigenziale che si rivolge alle
società che svolgono questo tipo di lavoro, affinché esse
preparino uno spettacolo teatrale da mettere in scena durante le occasioni
rituali tipiche dell’azienda, solitamente si tratta di Convention e realizzato per comunicare
dei precisi contenuti ai propri pubblici interni e ai collaboratori più
stretti.
In entrambe le esperienze vissute dalla Cantarelli, si è
trattato quindi di trovare un modo del tutto originale per rivoluzionare lo
schema tipico della comunicazione diretta e formale di cui solitamente si serve
l’azienda; infatti, ci troviamo in presenza di imprese che decidono di
abbandonare la dinamica tradizionale della Convention,
in cui uno o più dirigenti parlano da un podio, con un microfono,
seguendo una precisa scaletta di ordine degli interventi e servendosi, dove
necessario, di video-wall su cui
proiettare slide o immagini, al fine
di riprendere o alcuni concetti chiave per l’azienda o di presentare dei
dati relativi alle vendite e così via.
L’impresa sceglie di aprire la Convention, con uno spettacolo fondamentalmente di narrazione, il
quale crea nel pubblico un effetto a sorpresa sconvolgente; la sala è
completamente a buio e l’atmosfera creata è quella tipicamente
teatrale, grazie anche all’ausilio di particolari elementi scenografici
ed al corretto uso delle luci in sala che permettono di isolare
l’ambiente. In questa suggestiva cornice teatrale, entra l’attore,
provocando un effetto di sorpresa e sbalordimento nel proprio pubblico, che
invece si aspetterebbe di veder iniziare la Convention
con il tradizionale discorso o la consueta relazione di apertura fatta
dall’amministratore delegato dell’azienda.
In entrambi i due lavori, la Cantarelli ha dovuto realizzare un
testo scritto ad hoc per il
committente; è l’azienda stessa a convocare gli organizzatori del
lavoro teatrale, per comunicare loro gli obiettivi che essa vuole raggiungere
attraverso questo tipo di esperienza: durante il cosiddetto brief, vengono discusse le problematiche
tipiche che si vogliono affrontare, le quali solitamente riguardano la sfera
delle risorse umane e la loro motivazione ma che possono anche interessare
l’area della fidelizzazione del cliente.
Nasce così lo scheletro drammaturgico del testo,
accompagnato dalle prima note di regia; logicamente spetta poi agli
organizzatori dell’evento teatrale trovare il modo migliore e allo stesso
tempo più efficace di realizzare gli intenti che l’azienda ha loro
richiesto.
In
entrambi i casi di cui si è occupata la Cantarelli, si è
preferito mandare in scena un unico attore, accompagnato dalla presenza di
alcuni oggetti scenografici particolari305.
Occorre subito notare che nel primo caso persino la scelta del
titolo non è stata casuale: infatti, dato che l’azienda
committente si occupava di editoria e l’obiettivo era quello di
ripercorrere i valori di un prodotto che aveva a che fare con il mondo della
carta stampata, era indispensabile trovare un titolo che evocasse il bisogno
del ritorno alla parola.
Per quanto riguarda poi la realizzazione dello spettacolo,
bisogna subito precisare che l’unico attore, è rimasto in scena da
solo per cinquanta minuti, facendo una narrazione che toccava i punti salienti
di qualità del prodotto che l’azienda voleva presentare,
mettendosi però dalla parte di chi usufruiva di esso, al fine di
motivare il proprio personale interno a valorizzare maggiormente il proprio
lavoro, perché tutti gli elementi di valore profondo che il prodotto
poteva avere per il consumatore finale, dipendevano essenzialmente dalle
modalità che loro impiegavano per la sua produzione.
Un altro elemento molto importante è stato quello
scenografico; infatti, la scenografia è stata realizzata con
l’impiego di oggetti molto evocativi, atti a fornire un supporto
simbolico alle parole dell’attore, il quale per altro si muoveva in
questo spazio. Lo scenografo ha optato per realizzare due scale alte quattro
metri ciascuna, di cui una aveva in cima un libro e l’altra una grossa
luna; inoltre sul palcoscenico è stato posizionato un albero fatto di
foglie su cui erano disegnate delle lettere alfabetiche.
Lo spettacolo, come riferisce Laura Cantarelli, ha ottenuto
notevole successo e un ottimo risultato per quanto riguarda gli obiettivi da
raggiungere.
Un secondo esempio è stato realizzato con una struttura
molto simile al precedente. In questa nuova circostanza il brief non è stato incentrato sulla motivazione di vendita
del prodotto; l’obiettivo dell’azienda era piuttosto quello di
motivare i propri uomini affinché investissero nella formazione del
proprio personale addetto alle vendite306.
Per scrivere il testo drammaturgico, dato che il committente era un cliente
tedesco, si è deciso di prendere come fonte di ispirazione Le storie di calendario di Peter Hans
Hebel ed in particolare di quest’opera sono stati scelti due racconti
basati sul commercio. Il primo di essi parlava di un cliente molto furbo che
era riuscito a beffare un oste perché costui era impegnato ad occuparsi
della concorrenza; quando si accorge di essere stato beffato dal cliente,
allora gli chiede di ripetere la beffa ad un altro oste a lui concorrente,
trovandosi però spiazzato, quando è lo stesso cliente a dirgli di
essere stato mandato dall’altro oste per recare a lui la beffa che in
precedenza egli aveva subito dal cliente.
Il secondo racconto rappresenta una parabola positiva, in cui un
garzone di bottega imbarcatosi su una nave decide, vedendo che i compagni che
si trovano con lui si vogliono divertire, di inventarsi un prodotto,
cioè di vendere indovinelli; la storia, dopo un qui pro quo iniziale, si risolve molto bene, perché
ciò che contava veramente era di riuscire a vendere
all’interlocutore ciò di cui aveva bisogno, raggiungendo
così il proprio obiettivo.
Anche in questo caso un unico attore in scena, ha narrato per
quindici minuti i due racconti, vestito da Arlecchino; nel primo caso
l’attore entra improvvisamente nella Convention,
trascinando con sé un carro di cartone a forma di casa alto come lui ed
incomincia il racconto; nel secondo caso invece, prima di narrare la storia, si
toglie la maschera e soltanto dopo essere salito sul carro, inizia a parlare. La
rappresentazione si conclude con l’attore che, lanciando degli input al pubblico presente in sala,
abbandona la scena, pronunciando, prima di uscire definitivamente, una
citazione tratta da Saramago:<<Voi vi chiederete che cosa c’entra
tutto questo con il vostro prodotto: io vi rispondo che siamo tutti e due dei
venditori, perché io vendo storie>>.
Lo spettacolo, riferisce sempre la Cantarelli, è ben
riuscito anche questa seconda volta, in quanto si è lavorato con uno
strumento, quello teatrale, in grado di scuotere efficacemente e velocemente la
sfera emotiva dei partecipanti, senza obbligarli a dover subire la solita
predica tipica della comunicazione tradizionale.
Quindi, continua la Cantarelli, con l’uso dello strumento
teatrale, si sono potuti ottenere risultati di apprendimento molto più
alti ed in un tempo inferiore rispetto a quello impiegato dai metodi
tradizionali, con la difficoltà però di riuscire a trovare una
forma di collegamento il più possibile adatta a rappresentare i
contenuti che si vogliono comunicare. In ogni caso questo tipo di intervento
teatrale si presta molto bene ad essere impiegato per comunicare a livello
delle relazioni umane e personali, dove cioè entrino in gioco delle
emozioni a confronto fra loro; al contrario esso sarebbe stato fallimentare
dove si fossero voluti mostrare bilanci o tecnologie aziendali, in quanto
sarebbe stato più opportuno ricorrere a strumenti di matrice più
specificatamente economica.
Dopo questo tipo di intervento, sia gli organizzatori che
l’azienda prediligono che il feedback
relazionale avvenga in modo del tutto informale: volutamente si lascia, che le
persone che hanno assistito allo spettacolo, scelgano liberamente il modo
migliore di comunicare le sensazioni che hanno ricavato dalla partecipazione a
quel determinato evento teatrale. Così come succede a teatro, dove
sarebbe assurdo che all’uscita di una rappresentazione ci fosse un
intervistatore pagato dalla compagnia teatrale per registrare le impressioni
che gli spettatori ne hanno ricavato, così non sarebbe giusto e non
rappresenterebbe neanche uno strumento omogeneo servirsi di un questionario
standard per ricavare le impressioni che la rappresentazione ha suscitato sui
dipendenti dell’azienda. O la rappresentazione ha successo oppure no, non
esistono vie di mezzo.
La lunga descrizione dell’esperienza professionale di
Laura Canterelli, si è conclusa con una significativa riflessione, la
quale lascia ben sperare per le future sorti della drammaturgia per
l’impresa; come lei stessa riferisce:<<[…] la strada per un
intervento teatrale in azienda è sicuramente aperta; comunque, tutto
nasce se c’è un bisogno e questo parte sempre dall’azienda,
la quale liberamente decide di rivolgersi ai professionisti del teatro per
cercare di sanarlo. Non esiste un modello e delle regole teatrali da seguire
quando si decide di praticare questo tipo di lavoro: fare teatro in azienda
significa usare la sapienza dell’arte teatrale considerata come
un’esperienza che è in sé antropologica, sociologica e
psicologica. Allora, secondo questo tipo di visione, c’è spazio
per delle pratiche teatrali che possano essere impiegate per obiettivi e
modalità diverse; chiunque decida di intraprendere questo tipo di
professione, tenga sempre presente che ogni tipo di lavoro ma soprattutto in un
ambito come il nostro, non può essere considerato come
un’attività di tipo standard e perciò sarà il
singolo individuo, a seconda delle proprie capacità, a scegliersi la
strada che vorrà percorrere, sia essa la libera professione, o il lavoro
di collaboratore all’interno dell’azienda, soprattutto nel campo
della comunicazione interna e delle risorse umane. Oggi più che mai sono
favoriti in questa direzione i giovani laureati con un curriculum umanistico e
delle competenze come le mie>>307.
3.4: L’azienda come fonte di
ispirazione per il teatro (rif. Teatro di Shakespeare, la corte come
ispirazione x le sue opere, come l’azienda x i drammaturghi di oggi)
Dopo
questa ampia carrellata dedicata ad alcuni esempi riferiti alla realtà
italiana e da me ritenuti particolarmente significativi per illustrare
concretamente le possibili modalità di intervento teatrale
all’interno dell’azienda, vorrei ora soffermarmi su un modo diverso
di intendere il teatro o la drammaturgia d’impresa ma che con quelli
precedenti intrattiene un legame del tutto singolare, al punto da poter essere
considerato anche come modello o fonte di ispirazione per quanti vogliono
utilizzare lo strumento teatrale a servizio dell’impresa: sto parlando di
un teatro che ha fatto delle vicende aziendali ed economiche la materia su cui
costruire la propria drammaturgia.
Nonostante questa precisazione, parlare di teatro o drammaturgia
per l’impresa volendosi riferire all’opera di drammaturghi e
artisti che si sono serviti della realtà aziendale, trasformandola in
argomento per le loro opere teatrali non è del tutto corretto; infatti,
(come ho cercato di chiarire nei paragrafi precedenti riguardanti le metodiche
di intervento teatrale e gli esempi relativi ad esse), solitamente quando si
parla di intervento teatrale in azienda, qualsiasi sia la sua finalità,
si tratta sempre di una richiesta commissionata da un’organizzazione ad
una determinata società che si occupa di questi lavori, dietro il
pagamento di un compenso per la propria prestazione; nel caso di spettacoli
scritti apposta per l’azienda, il pubblico destinato a fruirne è
solitamente solo quello che fa parte della sua organizzazione.
Invece, mi interessa parlare in questo paragrafo di un modo del
tutto singolare di fare drammaturgia per l’impresa: si tratta
dell’opera di un drammaturgo e della messa in scena da parte di
professionisti che hanno deciso di rappresentare per un pubblico non certo
esclusivamente legato all’ambito aziendale, delle vicende che parlassero
di un argomento di forte attualità come può essere quello della
realtà economico-imprenditoriale del nostro tempo. Anche questo
può essere un modo di fare teatro per l’impresa, una
modalità che si richiama alle radici più profonde e distintive
del teatro inteso come rito civile, luogo dove da sempre si può parlare
e discutere dei problemi di ogni tempo, in modo del tutto spontaneo e
soprattutto “civile”. La vera novità di questo modo di fare
teatro consiste quindi nel volersi occupare dei problemi contemporanei
all’uomo della nostra società e non di raccontare solo qualcosa di
puramente inventato o lontano nel tempo, come già del resto avevano
fatto in passato i greci nelle loro commedie o tragedie, in cui chi vi
assisteva sapeva benissimo di chi e di che cosa si stesse parlando. Questo,
appunto, è stato l’obiettivo del lavoro realizzato dal teatro
Settimo di Torino dal titolo Camillo:
alle radici di un sogno, riguardante la storia dell’origine
dell’impero Olivetti, dalla nascita nel 1868 del suo fondatore Camillo,
fino alla morte nel 1960 di Adriano, figlio e successore dell’opera
iniziata dal padre.
Questo tipo di drammaturgia ha un precedente di rilievo
nell’opera del drammaturgo francese Michel Vinaver308, che ha fatto delle vicende della
vita quotidiana e soprattutto dei rapporti economici la materia di ispirazione
per le sue opere teatrali, nonostante vi siano delle profonde differenze tra il
suo modello di drammaturgia e quello invece del Teatro Settimo. Senza volere in
questa sede scendere nei dettagli, poiché di questo autore parlerò
in modo approfondito nel prossimo paragrafo, si può comunque riassumere
la diversità delle due impostazioni teatrali dicendo che Vinaver
è un drammaturgo, che lavorando contemporaneamente come manager di una
filiale francese di un’industria multinazionale, viene a contatto con le
vicende e i problemi del mondo del lavoro, appassionandosene a tal punto di
decidere di farli diventare argomento delle sue pièce teatrali. Ma il punto di vista da lui adottato e
soprattutto gli argomenti da lui affrontati, mettono subito in evidenza che il
drammaturgo ha voluto parlare nelle sue opere delle situazioni che si creano
ogni giorno nel mondo del lavoro, vissute però da parte dei dipendenti
delle imprese. Invece, il lavoro svolto dal Teatro Settimo, Camillo: alle radici di un sogno, che per la stesura del testo
drammaturgico ha richiesto l’impegno degli stessi aderenti alla compagnia
teatrale, non dovendo quindi ricorrere ad un testo scritto da altri
drammaturghi, si è voluto mettere in un certo senso dalla parte di chi
ha deciso di fare il lavoro di imprenditore, cercando di fare capire agli
spettatori cosa abbia voluto significare la realizzazione di un progetto
economico all’interno della nostra economia. A parte queste significative
differenze, credo che sia l’opera di Vinaver, che il lavoro del Teatro
Settimo, possano rappresentare due diversi modelli di ispirazione per quanti
vogliano servirsi della drammaturgia e del teatro per fini non puramente
artistici ma piuttosto indirizzati al mondo dell’impresa e alle sue
problematiche.
3.7
L’Action game
Con
questa terminologia messa a punto dalla Società di consulenza Forma del
Tempo di Bologna1, si vuole
definire una metodologia di sviluppo dell’apprendimento in grado di coniugare
e declinare nello stesso setting diverse metodologie didattiche che usualmente
i formatori adottano nella loro pratica professionale. Il grande vantaggio di
poter collocare nel medesimo plot formativo approcci differenti, consente
un’amplificazione emotiva tale da coinvolgere i sentimenti profondi del
partecipante, attivandone, in molte circostanze, quella risposta emotiva che
rende possibile il processo di cambiamento.
Per
capire meglio di cosa si tratti, occorre analizzare il funzionamento di un
Action Game.
Il
punto di partenza è costituito dalla creazione di un mondo simulato in
cui i partecipanti vengono proiettati e che emula nelle dimensioni
quantitative, relazionali e situazionali le realtà da cui provengono. Si
tratta di un vero gioco di ruolo (come
il business game), in grado di creare una realtà virtuale, in cui
i partecipanti sono chiamati ad immedesimarsi , rispetto ad una realtà
per loro comune e verosimile, progettando ed interpretando i comportamenti di
un Personaggio che è sollecitato a reagire ad una serie di stimoli
cognitivi e relazionali che provengono dall’ambiente esterno.
Per
la creazione della trama, occorre una raccolta preventiva presso il committente
di dati numerici e qualitativi, da parte dello staff che progetta il gioco, al
fine di rendere il tutto il più verosimile alla realtà in cui i
partecipanti operano.
234 A. ARTAUD, Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino 1968, pp. 3-4.
235
Queste interessanti riflessioni le ho ricavate nel corso di due interviste
realizzate tra febbraio e marzo
236 G. INNOCENTI MALINI, Interazioni teatrali, in C. BERNARDI-B. CUMINETTI (a cura di), L’ora di teatro. Orientamenti europei ed esperienze italiane nelle istituzioni educative, Euresis, Milano 1998, p. 153.
237 D. GOLEMAN, Emotional Intelligence, 1995; trad. it. Intelligenza emotiva. Che cos’è? Perché può renderci felici, Rizzoli, Milano 1996.
238 Ibi, pp. 180-199, dove l’autore mostra con particolare enfasi come dirigere oltre che con il cervello, anche con il cuore, dia migliori risultati sia in campo economico sia umano. Quello che egli suggerisce è ad esempio di motivare i propri dipendenti attraverso la pratica di critiche costruttive, che insegnino le persone a crescere, riconoscendo i propri errori ma essendo subito pronte poi a proporre nuove strategie di azione; infatti, continua Goleman, una persona stimolata è più spronata a dare il meglio di sé, mentre chi si sente continuamente aggredito e frustrato, non può che a lungo andare disprezzare il proprio lavoro e di conseguenza farlo male. Per ulteriori esempi e chiarimenti, si vedano le pagine sopra citate.
239 L. CANTARELLI, Materiali. Teatro e terapia: modelli, problemi e prospettive, in C. BERNARDI-L. CANTARELLI, (a cura di), Riti teatrali nelle situazioni di margine, Quaderni dell’Ufficio di Promozione Educatica e Culturale, Provincia di Cremona, Cremona 1995, p. 93.
240 Mi accingo ora ad illustrare brevemente i contributi relativi all’utilizzo della teatro-terapia, rinviando per gli opportuni approfondimenti a CANTARELLI, Materiali…, pp. 93-109, oltre che alle singole opere degli autori che in esso sono menzionati.
241 S. FREUD, Al di là del principio di piacere, in Opere, vol. II, Newton Compton, Roma 1992. Il gioco del rocchetto”, chiamato anche del fort-da, vede impegnato un bambino nel lanciare lontano fino a perderlo di vista un rocchetto legato a un filo per poi regolarmente riavvicinarlo di nuovo a sé. L’oggetto si sottrae al suo sguardo e subito dopo ricompare, esattamente come accade con la madre che si assenta e poi ritorna. Attraverso l’elaborazione del distacco dell’oggetto amato sul piano della rappresentazione, di cui il simbolo non è il rocchetto bensì il gesto di allontanamento e riappropriazione che non si limita alla sola situazione contingente ma investe la globalità del mondo reale, il bambino accetta il trauma della separazione, perché la realtà dell’assenza, controllata e provocata, si afferma proprio in virtù del suo riconoscimento. Proseguendo nelle sua interpretazione, Freud fa anche un’altra importante osservazione:<<Di fronte all’accadimento, egli si trovava all’inizio in posizione passiva, quasi fosse travolto dal suo impatto, ma a furia di ripetere l’esperienza, per quanto sgradevole essa fosse, sotto forma ludica, eccolo assumere un ruolo attivo>>.
242 S. DALLA PALMA, Gioco e teatro nell’orizzonte simbolico, in B. CUMINETTI (a cura di), Educazione e teatro, <<Comunicazioni Sociali>>, VII, Università Cattolica, Milano 1985, pp. 42-43. Per quanto riguarda l’importante legame tra il fare e il dire nei processi evolutivi, si veda l’interessante riflessione in ambito psicanalitico di A. RACALBUTO, Tra il fare e il dire. L’esperienza dell’inconscio e del non verbale in psicanalisi, Raffaello Cortina, Milano 1994, dove l’autore, sottolineando che il corporeo è strettamente legato oltre che al mentale, anche all’inconscio, cerca di curare i propri pazienti, facendo in modo che loro attivino con lui un rapporto diretto, basato sullo scambio fecondo di sentimenti ed emozioni che poi devono essere in qualche modo rappresentati per poter ottenere la cura dei disturbi che li hanno generati, impersonando quasi il ruolo di regista nei confronti dei propri attori.
243 Per un approfondimento del suo pensiero
si veda: S. FERENCZI, Fondamenti di
psicoanalisi, Guaraldi, Firenze 1972-75, tenendo ben presente che egli
è stato il primo studioso a mettere a punto il cosiddetto “metodo
attivo”, una tecnica sviluppata tra il 1918 e il
244 Per un
approfondimento delle sue teorie, si veda: M. KLEIN, I principi psicologici dell’analisi infantile, in Scritti, 1921-1958, Boringhieri, Torino
1978. Per
245 Per capire meglio
il pensiero della Klein, è utile riportare alcune definizioni.
Identificazione:<<Processo psicologico con cui un soggetto assimila un
aspetto, una proprietà, un attributo di un’altra persona e si
trasforma, totalmente o parzialmente, sul modello di quest’ultima. La personalità
si costituisce e si differenzia attraverso una serie di identificazioni.
[…] Incorporazione e introiezione sono prototipi
dell’identificazione. […] L’incorporazione è rivolta a
cose e la relazione viene confusa con l’oggetto in cui essa si incarna;
l’oggetto con cui il bambino intrattiene una relazione aggressiva diventa
quasi sostanzialmente “l’oggetto cattivo”, che è
allora introiettato>> (J. LAPLANCHE-J. B. PONTALIS, Enciclopedia della psicanalisi, Laterza, Bari 1993, pp. 232-233);
introiezione:<<Processo messo in evidenza dall’indagine analitica:
il soggetto fa passare, in modo fantasmatico, dal “di fuori” al
“di dentro” oggetti e loro qualità>> (Ibi, p. 264); identificazione
proiettiva:<<Termine introdotto da Melanie Klein per designare un
meccanismo che si traduce in fantasie in cui il soggetto introduce la propria
persona totalmente o parzialmente all’interno dell’oggetto per
danneggiarlo, possederlo e controllarlo. […] L’identificazione
proiettiva appare come una modalità della proiezione.
246 Per chiarire meglio questo concetto si veda: D. WINNICOTT, Gioco e realtà, Armando, Roma 1974. Come precisa l’autore, il bambino gioca, solitamente con qualcosa o con qualcuno e ciò che il piccolo tiene fra le mani è sostitutivo di qualche oggetto parziale, ad esempio il seno materno, ma ciò che davvero conta è il suo essere non tanto qualcosa di simbolico ma piuttosto qualcosa di reale. A pagina 30 egli precisa che:<<Il suo non essere il seno (o la madre), per quanto sia un fatto reale, è altrettanto importante come il fatto che esso sta per il seno (o la madre). L’oggetto transizionale sta quindi ad indicare un oggetto materiale che il bambino tiene accanto a sé nei primi mesi di vita e che gli consente di compiere il passaggio dalla relazione empatica con la madre alla relazione oggettuale.
247 Per un approfondimento del pensiero di Moreno, si veda il suo Manuale di Psicodramma. Il teatro come terapia I, Astrolabio, Roma 1985. Come racconta lo stesso Moreno, dopo le prime esperienze di animazione teatrale (1910/1920) condotte a contatto con gruppi di emarginati della periferia di Vienna, fondò nel 1922 il “Teatro della Spontaneità”. Ogni sera, in un piccolo teatro scalcinato, un ristretto gruppo di amici-attori diretti da Moreno metteva in scena drammatizzazioni a canovaccio prendendo spunto dai suggerimenti del pubblico, che in realtà era costituito da una comunità di persone che attraverso la forma drammatica riuscivano a vivere l’emozione di quelle rappresentazioni.
248 In particolare si veda il già menzionato MORENO, Manuale…, alle pp. 91-92, dove l’autore, parlando del significato di psicodramma e di psico-catarsi, come di due concetti contrapposti a quello tradizionale di catarsi espresso da Aristotele nella Poetica a proposito della tragedia, afferma che:<<La base dell’analisi di Aristotele era la tragedia conclusa. Egli tentò di ricavare il significato del teatro dall’effetto che un prodotto portato a temine esercita sulle persone durante la sua rappresentazione. Il terreno sul quale il presente libro fonda le sue analisi del teatro non è un prodotto portato a termine e concluso, ma la realizzazione simultanea e spontanea di un lavoro poetico e drammatico nel suo processo di sviluppo a partire dal suo status nascendi, passo per passo. E secondo questa analisi la catarsi si verifica non solo nel pubblico – effetto questo desiderato solo in seconda istanza – e non nelle dramatis personae di una creazione immaginaria, ma soprattutto negli attori spontanei nel dramma che crea le personae nel momento stesso in cui le aiuta a liberarsi di se stesse. Per approfondire invece la tematica della rivoluzione creativa da lui compiuta si vedano le pp. 95-110 e 150-165 sempre dello stesso libro.
249 Si vedano le loro principali opere: S. LEBOVICI, Terapia Psicoanalitica di gruppo, Feltrinelli, Milano 1980; D. ANZIEU, Lo psicodramma analitico del bambino e dell’adolescente, Astrolabio, Roma 1979; G. LEMOINE-P. LEMOINE, Lo psicodramma, Feltrinelli, Milano 1973; M. BASQUIN-P.DUBUISSON-B. S. LAJEUNESSE-G. TESTEMALE-MONOD, Lo psicodramma. Un approccio psicoanalitico, Borla, Roma 1979; P. BOUR, Lo psicodramma e la vita, Rizzoli, Milano 1973.
250 Per un’analisi dettagliata di
questo argomento, rimando al già citato lavoro di CANTARELLI, Materiali…, pp. 100-102 e relative
note.
251 Ibi, pp. 101-103.
252 M. DE MARINIS, Il nuovo teatro, Bompiani, Milano 1987,
p. 40. Si ricordi che il Living Theatre è nato nel 1947 per iniziativa di
Julian Beck e Judith Malina. Dopo i primi anni in cui i due attori si dedicano
al teatro, alla letteratura e alla poesia, intorno agli inizi degli anni
Sessanta giungono a una prospettiva che rifonda il loro fare teatro.
253 Un esempio particolarmente significativo di questo modo di lavorare, è rappresentato dallo spettacolo The Brig del 1964. L’intero gruppo teatrale per potersi preparare al meglio per la riuscita della pièce, dovette lavorare su di un testo durissimo scelto da Judith Malina, Il manuale dei marines. Gli attori dovettero così accettare il “Regolamento della prigione”, che li obbligò a vivere la crudeltà dell’oppressione e della reclusione, per essere poi in grado di trasmetterne tutta la violenza al pubblico, quasi per “contagio”. La peculiarità di questo modo di fare teatro consisteva nel lasciare libera iniziative agli attori, i quali lavoravano senza un testo fisso e definito, al fine di poter liberare tutta la loro creatività ed immaginazione.
254 Con il lavoro di Grotowski, assistiamo alla nascita del Teatro-Laboratorio, in cui assume particolare rilievo il processo di trasformazione (o di rivelazione) delle prove più che la stessa rappresentazione. In questo tipo di teatro la figura dell’attore occupa una posizione centrale, ma non più fondata sulla supremazia della parola e del testo, ma sulla verità del corpo. L’attore è chiamato a compiere un duro lavoro su se stesso, per evitare sia la prostituzione della scena, sia la falsità delle maschere. Per un approfondimento di queste tematiche si veda: J. GROTOWSKI, Per un teatro povero, Bulzoni, Roma 1970.
255 GROTOWSKI, Per un teatro…, p. 55.
256 DE MARINIS, Il nuovo…, p. 112. Si ricordi che Marat-Sade è la storia dell’assassinio di Jean-Paul Marat, ucciso da un gruppo di malati mentali del manicomio Charenton, in Francia, dove il marchese de Sade li ha raccolti in una compagnia teatrale.
257 A tal proposito va ricordato che i paesi dove si è avuto un maggiore sviluppo della teatro-terapia sono stati: Francia, Germania, Gran Bretagna e Stati Uniti.
258 A tal proposito si vedano le
principali opere degli autori sopra citati: M. LAHAD, Strorymaking: an assessment method for coping with stress, in S.
JENNINGS (ed.), Dramatherapy Theory and
Practice 2, Routledge, London 1992; A. GERSIE-N. KING, Storymaking in Education and Therapy, Jessica Kingsley, London
1990.
259 R. LANDY, Drama Therapy: Concepts and Practice,
260 Questo modo di fare teatro fa riferimento all’insegnamento della scuole gestaltiana, in cui il teatro è stato introdotto quale strumento terapeutico di grande efficacia; per informazioni più dettagliate si legga l’opera di P. REBILLOT, The Call to Adventure: Bringing the Hero’s Journey to Daily Life, New York 1993.
261 V. TURNER, Antropologia della Performance, Il Mulino, Bologna 1993, p. 285.
262 A sottolineare ancora di più la vicinanza tra gioco e teatro, sono le riflessioni del già citato lavoro di DALLA PALMA, Gioco e teatro…, in particolare quelle espresse a p. 47:<<Giocare vuol dire teatrare i conflitti che, nell’atto segnico, si istituiscono tra significati e significanti, assumere una parte, interpretare una parte, mettere parti di sé nell’altro, modulare il proprio corpo secondo il fantasma, così da fornire ad esso il primo linguaggio, la scena e i personaggi dove si rappresentano i drammi originari>>.
263 A CASCETTA, La sfida del corpo sulla scena teatrale, in V. MELCHIORRE-A CASCETTA, Il corpo in scena, Vita e Pensiero, Milano 1983, p. 138.
264 Si vedano in particolare: Per una fenomenologia dell’intenzionalità corporea, in Metacritica dell’eros, Vita e Pensiero, Milano 1979; La corporeità come simbolo, in Il corpo, perché? Saggi sulla struttura corporea della persona, Morcelliana, Brescia 1979. Per un approfondimento di queste tematiche è utile il già citato lavoro di CASCETTA, La sfida…, da p. 138 e segg.
265 CASCETTA, La sfida…, p. 139.
266 P. WATZLAWICK-J. H. BEAVIN-D. D. JACKSON, Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio, Roma 1971 e P. L. AMIETTA-S. MAGNANI, Dal gesto al pensiero. Il linguaggio del corpo alle frontiere della mente, Franco Angeli, Milano 1998.
267 AMIETTA-MAGNANI, Dal gesto…, p. 13-24.
268 Gli autori fanno un riferimento chiaro e forte alla disciplina scientifica della Metodologia Operativa, detta anche Terza Cibernetica o Logonica. Si tratta di fatto di una “linguistica operativa” in quanto, risalendo dal linguaggio al pensiero, si propone - tra l’altro - di individuare, analizzare e descrivere le operazioni mentali che ne sono all’origine. Gli autori, pur partendo da questo assunto, ritengono possibile studiare l’attività mentale anche in assenza di espressioni verbali, collegando fra loro il linguaggio, la gestualità e la vita mentale, in un percorso che va dalla gestualità al mentale e viceversa oppure partendo dall’espressione linguistica per indagare le relazioni con quella mentale e gestuale.
269 AMIETTA-MAGNANI, Dal gesto…, p. 172. Per ulteriori informazioni, si vedano le pp. 171-182.
270 Ibi, p. 189.
271 Per ulteriori approfondimenti, si veda: Ibi, pp. 189-198, dove gli autori sottolineano come il lavoro dell’attore poi differisca profondamente da quello che fa ognuno di noi quando recita un ruolo nella vita di tutti i giorni, perché dietro alla sua recitazione vi è in realtà uno studio accurato di tale tecnica. Si pensi, solo per fare un esempio citato dagli stessi, dell’importanza delle riflessioni teoriche di maestri quali Stanislavskij, per aiutare l’attore ad entrare nei panni del personaggio.
272 Per quanto riguarda i riti aziendali
e la loro modalità di articolazione, si veda il paragrafo 2.3.2 del cap.
II° del presente lavoro. Invece mi preme qui ricordare un esempio del tutto
singolare, di impiegare il teatro come drammaturgia dello spettacolo, riferitomi
da Laura Cantarelli, nel corso di un’intervista rilasciatami nel febbraio
1999. L’esperienza di cui lei mi ha parlato si riferisce infatti al
lavoro teatrale, in questo caso specifico si è trattato di una commedia
in vernacolo barese dal titolo
273 In particolare parlerò del lavoro di Teresita Fabris, attrice e insegnante di dizione presso l’Accademia dei Filodrammatici di Milano; dell’esperienza di Romana Garassini, la quale attualmente si occupa di insegnare le tecniche del parlare in pubblico in ambito aziendale, oltre che svolgere tale professione sia nel campo della politica sia in quello della televisione e del lavoro di un attore, Pierpaolo Nizzola, tra le cui diverse esperienze di collaborazione con le aziende vi è stata anche quella di insegnare le tecniche di public speaking.
274 Si ricordino a tal proposito le
riflessioni fatte da Pasquale Gagliardi, in occasione del già menzionato
seminario Riflessioni
sull’antropologia…, p.
275 U. MORELLI-C. WEBER, Passione e apprendimento. Formazione-intervento: teoria, metodo, esperienze, Raffaello Cortina, Milano 1996.
276 Per quanto riguarda le responsabilità e la professionalità del formatore, sono particolarmente significative le riflessioni fattemi da Laura Cantarelli, in occasione della già menzionata intervista rilasciatami nel febbraio 1999. Come lei stessa riferisce a proposito del suo lavoro di formatore in azienda, quando si svolgono degli interventi volti al cambiamento in ambito relazionale, ci si scontra inevitabilmente con il gruppo dirigente che ha commissionato tale incarico; infatti, può capitare o che l’impresa voglia ottenere dall’intervento degli obiettivi, solitamente legati a risolvere problemi di relazione di gruppo o di motivazione del personale, con degli strumenti che il formatore non condivide, oppure accade che l’azienda ignori le valenze inconsce che l’intervento da lei richiesto può nascondere e quindi il formatore deve decidere se farle emergere attraverso un lavoro di scavo psicologico. In ogni caso, si deve riconoscere che spetta sempre alla deontologia professionale del formatore decidere come intervenire e secondo quali modalità, tenendo sempre presente che quando un professionista entra in azienda deve venire incontro alle esigenze di chi l’ha chiamato per quel tipo di lavoro, altrimenti la richiesta viene meno.
277 In particolare si vedano i capitoli
II° e III°, (con maggiore attenzione a quest’ultimo dove vengono
riferite le teorie a cui gli autori si rifanno). Mi preme qui ricordare: K.
Lewin, per l’importanza della conoscenza intesa come cambiamento e azione
e la formazione quindi basata sulla collaborazione feconda dei soggetti che vi
partecipano; E. H. Schein e K. E. Weick per quanto concerne la rilevanza dei
contributi che può fornire il lavoro di gruppo e le situazioni
più ambigue per capire e risolvere i diversi problemi che le hanno
generate; ancora Weick ed anche G. P. Quaglino, per evidenziare come la
formazione risulti efficace se sa tenere conto della situazione di contingenza
nella quale agisce e dei diversi punti di vista dei soggetti che vi
partecipano, riconoscendo di avere a che fare con un procedimento complesso in
cui essa ha dei precisi limiti che vanno sempre tenuti presente per agire in
modo corretto. Per le relative opere, si veda l’ampia bibliografia fornita
dagli autori da pag.
278 G. DE CARO, La comunicazione degli affetti nella formazione (prima parte), Personale e Lavoro, n. 372, Gennaio 1994, pp. 24-25.
279 L’autore mette bene in evidenza
come le emozioni scelgano dei canali preferenziali per comunicarsi, precisando
subito dopo, però, che i due canali principali di manifestazione dei
sentimenti sono quello verbale e quello non verbale. L’autore poi fa
notare come il linguaggio e, quindi, il canale verbale siano però
inadeguati a tale compito, perché l’espressione linguistica non
riesce a rendere ragione della ricchezza e dell’infinità delle
emozioni; quindi esse tendono a prediligere altri canali, soprattutto non
verbali, come ad esempio quello mimico, gestuale o postulare. Infatti, continua
l’autore, sembrerebbe che le emozioni negative preferiscano utilizzare
l’espressione del volto, in particolare la parte sinistra di esso, mentre
risulterebbe più controverso il ruolo della parte destra. Per ulteriori
precisazioni si veda: Ibi, pp. 23-24.
280
Per quanto riguarda le diverse matrici teoriche sottese a questa pratica,
si veda il bel lavoro di S. CAPRANICO, Role playing. Manuale a uso
di formatori e insegnanti, Raffaello Cortina, Milano
281 Ibi, pp. 40-49.
283 Capranico avverte però che l’utilizzo della registrazione deve essere fatto con molta attenzione e parsimonia; infatti, esso può anche procurare dei seri svantaggi. Primo fra tutti vi è quello di avere paura e inibizione da parte dei partecipanti nei confronti della telecamera o del registratore, causando in loro un atteggiamento di eccessivo controllo delle proprie emozioni; secondariamente la registrazione effettuata con la telecamera prevede l’impiego di un tecnico, il cameraman, estraneo al seminario ed anche questo può avere un effetto disturbante; infine bisogna riconoscere che il lavoro di registrazione prevede il riascolto che, se non preceduto da una puntualizzazione scritta dei momenti più salienti del corso, può avere un’azione fuorviante nei confronti del tutto.
284 Ibi, p. 55. L’autore tende a precisare, che per condurre ed imparare a svolgere un role playing, occorre oltre alla preparazione accademica e agli studi delle scienze sociali, soprattutto l’esperienza fatta in prima persona, avendo partecipato in precedenza a questo tipo di pratica.
285 Capranico suggerisce a tal proposito alcuni giochetti che si praticano nella fase di warning up; si tratta o di brevi scenette da recitare, caratterizzate dal fatto di essere scelte da chi dirige e di essere banali e semplici, oppure di scenette dimostrative recitate dal formatore e dagli assistenti, per fare vedere agli altri ciò che poi dovranno fare, chiedendogli eventualmente di commentarle, esprimendo così il proprio parere; altri tipi di riscaldamento possono essere ad esempio il gioco della sedia vuota, in cui i partecipanti devono dire chi immaginino di vedere seduti su di essa e che ruolo occupa questa persona, facendo così scattare il gioco oppure simile ad esso, il gioco della bottega magica, in cui ognuno racconta cosa immagina che essa contenga, il tutto preceduto da un’introduzione, un po’ ludica e un po’ teatrale, del direttore o di un suo assistente. Altri tipi di giochi prendono spunto dai racconti personali di esperienze particolari vissute dai partecipanti o di favole da essi suggerite, il tutto finalizzato a consentire il miglior avvio del gioco e ad agevolare i partecipanti ad entrare nella situazione e nel ruolo che dovranno poi recitare. Per ulteriori precisazioni, si veda: Ibi, pp. 59-65.
286 Per un approfondimento di queste tecniche e del loro utilizzo, si veda: Ibi, pp. 65-73.
287 A. A SCHUTZENBERGER, Trattato di psicodramma, Martinelli, Firenze 1972, cit. in CAPRANICO, Role playing…, p. 86.
288 CAPRANICO, Role playing…, p. 52 e pp. 91-94.
289 D. DEMETRIO, Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé, Raffaello Cortina, Milano 1996. Si pensi solo per citarne alcune, alle Memorie di poeti e filosofi come Orazio, Seneca, Cicerone o alle Confessioni di Sant’Agostino. L’intervento di Demetrio può essere visto in relazione a quello dei drammi terapeutici di Lahad o Gersie di cui ho parlato nella parta relativa alla teatro-terapia, anche se esso rappresenta un tentativo italiano del tutto autonomo dal loro.
290 Ibi, p. 82 e segg.
291 Per la spiegazione del pensiero di Winnicott, rinvio al paragrafo 3.1 relativo alle teorie del gioco, in cui esso è ampiamente trattato.
294 Mi riferisco all’esperienza di Laura Cantarelli, la quale opera in questo settore da alcuni anni e di cui riferirò ampiamente il lavoro svolto, nella parte relativa alle esperienze concrete italiane.
295 L’esperienza
qui riportata è il frutto di un’intervista rilasciatami da
Teresita Fabris, nel febbraio 1999. Formatasi con il teatro tradizionale,
avendo recitato anche al fianco di attori dal calibro di Gassman, in veste di
prima donna, abbandona presto questo ambiente, perché dice
lei<<[…] era pieno di invidie e gelosie e la mia inclinazione era
rivolta soprattutto allo studio, avendo l’ambizione di sfruttare le
conoscenze apprese dal modo del teatro per diventare un’operatrice
culturale>>. Dopo diverse esperienze teatrali all’estero e
soprattutto in Italia, dove si occupa prevalentemente di recitare poesie di
Montale e Quasimodo, abbandona l’ambiente teatrale e decide di andare ad
insegnare in una scuola di periferia a Cinisello Balsamo, in provincia di
Milano. Qui entra in contatto con una realtà di degrado ed emarginazione:
infatti, i bambini a cui deve insegnare sono figli di detenuti, con situazioni
familiari a rischio e per questo manifestano gravi disturbi della
comunicazione, addirittura uno di questi a causa di uno choc non riesce a
parlare. Attraverso una serie di giochi sui colori e sulle parole, ma
soprattutto grazie alla sua sensibilità e pazienza, ella riesce a
mettere i bambini nella condizione di aprirsi e comunicare con lei, riuscendo
anche a farsi raccontare le dolorose storie della propria infanzia. Il successo
è sbalorditivo: anche il bambino che sembrava muto, inizia a parlare.
Abbandonata anche questa significativa esperienza, ritorna
all’attività teatrale, con un interesse però
prevalentemente sperimentale; infatti, diventa una delle fondatrici del teatro
Trebbo di Milano, dove per sedici anni si occupa di studiare e insegnare la
parola e le regole della corretta dizione. Per altri dieci anni poi, indirizza
le sue abilità attorali per la realizzazione di spettacoli teatrali
itineranti per le scuole Medie Superiori, incentrati sulla resistenza. Seguono
quindi le esperienze alla radio e alla televisione, dove per altri dieci anni
si occupa di doppiaggio. In seguito entra all’Accademia dei
Filodrammatici di Milano, dove attualmente insegna dizione. Parallelamente al
lavoro in Accademia,
296 T. FABRIS, Professione comunicatore, Guide Trend, Arnoldo Mondadori, Milano 1997.
297 Per quanto concerne la carriera professionale di Teresita Fabris e le esperienze da lei avute, rimando alla nota n. 295, dove ho cercato di darne un sunto il più possibile esauriente. Invece qui mi interessa riferire, come mi fa ha fatto notare la stessa Fabris nel corso dell’intervista di cui ho parlato in precedenza, che tra i suoi clienti, oltre a manager e dirigenti, c’è stato anche un giornalista di canale cinque, che soffriva di balbuzie; questo è significativo per farci capire come le tecniche di espressione teatrale possano essere impiegate in svariati campi, al fine di aiutare l’individuo ad acquisire la consapevolezza dei propri mezzi.
298 Mi riferisco sempre alla già citata intervista di cui ho parlato nella nota n. 295.
299 Le osservazioni che farò nel
proseguo del paragrafo sul modo di lavorare della Garassini, sono state
ricavate dal seminario dal titolo Metodiche
didattiche e processi formativi per l’impresa, svoltosi il 12 aprile
1999 presso
300 A tal proposito è
301 Si tenga presente, come riferisce
302 A chi fosse interessato ad approfondire
le modalità di insegnamento e applicazione delle tecniche del parlare in
pubblico spiegate in questo paragrafo, si vedano, oltre al già citato
FABRIS, Professione…, anche: E.
LANZA, I riti della comunicazione,
Sperling & Kupfer, Milano
303 Le informazioni relative all’esperienza che mi appresto a descrivere sono state ricavate da un’intervista realizzata da me a Pierpaolo Nizzola, nel febbraio 1999. La sua carriera professionale inizia presso la compagnia di Grock, la quale prende il nome dal famoso clown svizzero Adrien Wettach, in arte Grock, che fin da giovane si dedicò al music-hall e al circo conquistandosi una grande notorietà per le capacità mimiche e acrobatiche in numeri comici a soggetto musicale. In questa compagnia, specializzata soprattutto in corsi di mimo e di comicità, Nizzola studia le tecniche comiche per diventare attore, lavorando con personaggi quali Maurizio Nichetti, Osvaldo Salvi ed Enrico Grazioli, decidendo alla fine dell’anno di restare come precario. Nel 1977 si laurea in Filosofia, continuando a praticare la recitazione attraverso degli stage ed un corso specifico presso un centro teatrale di Milano. Seguono poi l’esperienza della televisione, qualche doppiaggio ed un anno di lavoro nel campo della pubblicità.
304 L’esperienza vissuta da Laura Cantarelli, la quale dirige la società culturale Euresis e che ringrazio vivamente per avermi permesso di parlarne nel mio lavoro, l’ho ricavata da un’intervista da lei concessami nel marzo 1999 e che qui ho deciso di riportare interamente, omettendo però per motivi di privacy sia i nomi delle aziende in questione, sia le notizie strettamente riservate relative ai propri prodotti o alle tecniche di vendita che esse utilizzano.
305 Nel primo caso il testo, dal titolo è stato scritto per te, è stato realizzato da Alessandra Ghiglione, assistente di Storia del teatro, presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. La recitazione è stata affidata ad unico attore, Roberto Anglisani, mentre la scenografia è stata realizzata da Marcello Chiarenza.
306 Per quanto riguarda il secondo esempio qui riportato, bisogna ricordare che il testo è stato scritto dalla stessa Laura Cantarelli e recitato anche in questo caso da un unico attore, Silvio Castiglioni.
307 Le parole di Laura Cantarelli qui riportate, sono state ricavate dall’intervista già citata alla nota n. 304, rilasciatami da lei stessa.
308 Dell’opera di Michel Vivaver, drammaturgo francese a noi contemporaneo, parlerò più dettagliatamente nel paragrafo 3.4.2, soffermandomi in particolare ad analizzare una pièce che fa parte dell’opera drammaturgica Teatro Minimale, dal titolo La demande d’emploi, (La domanda d’impiego) e a mio parere particolarmente significativa sia per le tematiche affrontate, sia per l’originale drammaturgia elaborata dall’autore, che con il suo teatro ha voluto scardinare le modalità convenzionali della drammaturgia tradizionale.