A furnèla
A furnèla, la fornella, è il luogo dove il seme oleoso è riscaldato prima di
metterlo nel torchio.
Strutturalmente è un forno dove si genera il calore necessario per eliminare l’umidità e riscaldare i semi oleosi fino a 80°C in modo che l’olio da estrarre diventi più fluido e scorra più facilmente fuori dal torchio. Il combustibile usato dal panelatu negli ultimi anni è stato il metano, ma nei tempi andati sono state usate tutte le fonti di calore possibili. Mi piace ricordarne alcune.
La legna era spesso quella recuperata dai mugnai dell’Olona che nei periodi di piena si ritrovavano piante e rami ad ostruire i mulini. Costava poco o nulla perché richiedeva un sacco di lavoro per renderla bruciabile. Le armi erano i cüni, quei cunei che si inserivano a mazzate lungo l’asse della pianta e la aprivano lungo la vena principale. Poi la sega a mano, ul rassegon, con ul panelatu da una parte e ul sò fiö dall’altra per ridurre la lunghezza ai fatidici 50-60 centimetri. Se si comprava la legna a pezzi grossi bisognava spaccarli a metà a colpi di sigüia (la scure), altrimenti facevano fatica a bruciare. Per accendere il fuoco si usava a fassìna , la fascina, quell’insieme di rami e rametti che i contadini potavano a primavera e che raccoglievano in un fascio, a fassìna appunto. Tutta questa legna doveva passare almeno un anno di stagionatura per perdere l’umidità e così si sistemava all’aria aperta sulla cassìna, che era divisa in 2 parti, quella con la legna in uso e quella da stagionare.
Un combustibile fatto in casa era ul panel da vinasciö, il panello dei vinaccioli, dei granelli dell’uva. Forse non tutti sanno che i semi dell’uva sono una fonte importante di “energia”. Prima si utilizzano per fare la grappa e poi, dopo la distilleria, arrivano dal panelatu. Si aprono, si macinano e per spremitura danno un olio verde e saporito, l’olio di vinaccioli, oggi reclamizzato come olio d’uva. Il residuo è il panello di vinaccioli, ricco di lignina, come si può ben pensare e quindi una buona fonte di calore. Così al mese di novembre ul panelatu comperava 100 quintali di vinasciö , faceva l’olio e con il panello che rimaneva scaldava a furnéla per una buona parte dell’anno. I dischi rotondi dei panelli si spaccavano a metà e si mettevano “a capanna”, con la parte più larga appoggiata e le punte dei semicerchi che si toccavano. Faceva tanta brace e soprattutto la brace non si spegneva mai, così non c’era paura di lasciar “morire” il fuoco, bastava spostare un po’ la cenere superficiale e sotto c’era sempre qualche parte accesa pronta ad attizzare i due mezzi panelli successivi.
Il carbone era la fonte
più costosa e quindi da usare solo se non erano disponibili le altre. Era caro,
occorreva tanto tempo per farlo diventare “rosso” e poi scaldava troppo e troppo
facilmente scendeva di forza, insomma non era il combustibile adatto per una
fornella come quella del panelatu. Ma tant’è, quando non c’era nulla bisognava
pur scaldare i semi e allora…: ma quanti tipi di carbone! Il carbone coke,
quello fatto a ovetti, andava bene per la cucina economica o la stufa a fuoco
continuo della casa, ma costava troppo per usarlo nella fornella. L’antracite a
fiama longa
era probabilmente il migliore perché bruciava con una fiamma simile a quella
della legna stagionata, lambiva bene la
padèla
della fornella e riscaldava
uniformemente. Ma aveva un problema ed è stato abbandonato per volere de
la
panelata
che un mattino si trovò i panni
stesi sul curedùi
infiorati da tanti piccoli puntini neri,
i filápi, il nerofumo che
quel carbone generava perché ricco di sostanze volatili e che la fiamma
trascinava oltre il camino fino al cortile. Rimase l’antracite, a pezzi grossi,
combustibile “potente” che occorreva vigilare perché non si doveva metterne
molto perché scaldava troppo e appena si abbassava il “rosso” bisognava
aggiungerne qualche pezzetto altrimenti perdeva forza.
La bocca della fornella “mangia” combustibile e fornisce calore alla padella e al seme contenuto. Come si vede nella foto, c’è un motore che fa girare una puleggia e un pignone accoppiato ad un albero verticale al termine del quale c’è un ferro a Λ (vi rovesciata) con la punta saldata all’albero e con i due lati che appoggiano sulla padella. La rotazione provoca il continuo sollevamento del seme per cui non brucia e il suo movimento aumenta la superficie di evaporazione dell’umidità. E’ una macchina simile a quella che si usa per tostare il caffè e il continuo movimento per evaporare l’umidità mi fa venire in mente il cuoco e il cucchiaio di legno con il buco per rimestare il risotto e asciugare il brodo. La padella della fornella si carica con 3 ceste di seme macinato, ceste di vimini, rivestite all’interno con la tela di un sacco di juta per non perdere il seme macinato fine. Non di lamiera perché sono pesanti e sollevare a mano una cesta piena a quasi 2 metri costa fatica. La fiamma brilla, il seme si scalda, l’umidità evapora e ul panelatu ogni tanto affonda la sua mano callosa per verificare se il seme è asciutto per la spremitura. Operazione importante perché se il seme è ancora umido l’olio che fuoriesce dai torchi trascina l’umidità residua e un po’ di panello, “al spara föa”, veri e propri spari di olio, panello e vapore che sporcano dappertutto e riducono la resa oleosa. Come lo stecchino nella torta, quando la mano rimane asciutta e il seme non si appiccica vuol dire che il seme è pronto. L’operazione dura circa 30 minuti, ora bisogna preparare il torchio per caricarlo.